Se si recuperasse un po’ di Valle… Diego Segor

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Villeneuve. Un paese a metà strada tra la città e la montagna. Un piccolo acciottolato che ha una rappresentazione da centro e un ponte sulla Dora Baltea catturano in un massimo di lucidità. Qui, qualche anno fa, c’erano negozi e c’erano turisti. Si fermavano per poi ripartire. Ora non rimangono e non ripartono. Poi la politica lo ha svuotato di senso, rendendolo un po’ più di un dormitorio e un po’ meno delle sue frazioni. Il freddo fuori stagione copre tutto anche le assenze. Quello che resta, con una definizione da rapporto consumato all’angolo di una strada dove il cappello è il migliore sentore dei nostri sentimenti, è la centrale idroelettrica di Champagne 1, di una bellezza senza alcuna logica. Pomeridiana, sepolta, storicamente adattata al lavoro, post-industriale e austera. La fine della Belle Epoque ha portato troppa fuliggine e troppo cemento. Le centrali sembravano sanatori che sembravano ospedali psichiatrici che sembravano ville padronali. C’era un mistero latente da disvelamento noir.

Le poche botteghe rimaste non danno sfoggio di contemporaneità. Gli abitanti vanno ad Aosta e qui rimane qualche eroe e qualcuno che ha bisogno di una stalla vicino per poter trovare coerenza.

La macelleria Segor resiste in piazzetta da oltre cinquant’anni. Corrado, adesso in bottega, e Diego, in produzione, hanno preso l’eredità di Ernesto, uno dei pochi che ha provato a dare ai salumi valdostani un’aurea di artigianalità, che non fosse quattro mura casalinghe e una carica batterica fuori controllo. Ma qui in Valle gli accordi con gli allevatori e gli accordi tra allevatori non sono stati mai l’ordine del giorno, questa è una terra di prodotti tipici dove la materia prima non ha un’origine giustificata. E così si va avanti anche oggi. Il Jambon de Bosses, il prosciutto Saint Marcel, il lardo di Arnad, le mocette e i boudin sono prodotti con una trasformazione, con un sapore indotto, ricreato, più o meno speziato, che non lasciano nulla alla radice del gusto.

Diego ha provato a cercare, a mettere d’accordo allevatori e trasformatori, ma il presente dei salumi in Valle è ben lungi da un’identità. La carne fresca di razze valdostane non si vende, è troppo dura, bisogna frollarla molto con conseguente perdita di colore, avrebbe un sapore interessante, selvatico, ferroso, ma nessun appeal. Così si compra principalmente all’estero. Il lavoro del macellaio ha un’anima urbana perché i contadini continuano, nella propria auto-sufficienza, a disinteressarsi della coesione. Ognuno fa da sé e chi resta va al supermercato. I maiali non ci sono e così bisogna lavorare sul contorno, sul contesto, sull’artigianalità del fare. Lì Diego è un nostalgico tradizionale. Le signore non pelano più le patate, ma le patate sono tutte lì da vedere. Il boudin è un prodotto con qualcosa di unico. Una base di amido, un’aggiunta di barbabietole, grasso di maiale e sangue a legare il tutto. Fresco va bollito, stagionato va tagliato. Il sapore è ferroso, il sangue corroborante, la barbabietola dà colore e conservazione , la speziatura non è invasiva, il cibo povero diventa un principio d’autenticità. Percorrendo la strada dell’agricoltura e dell’allevamento si può iniziare a rispondere ai Perché. La mocetta è un filo troppo “cantinata”, speziatura forte ma equilibrata, migliore masticabilità ma soprattutto maggior grassezza rispetto a una slinzega. Niente punta d’anca, ma noci e sottofese. La materia prima non arriva ma la macerazione e l’aromatizzazione erbacea hanno comunque un filo di raffinatezza. Bella l’idea della pancetta fresca, molto lavorabile, senza pretese, senza stagionatura, con le erbe a sigillare il sapore; particolarmente fuori luogo le piccantezze di alcune lavorazioni, troppo compressi al gusto i salami classici, dove l’eccesso di zelo e di “protezioni” è già una pre-masticazione.

Diego ha la capacità norcina di tirar fuori un prodotto sempre e comunque. Qui si parla di artigianalità di un mestiere, di borghi sepolti, di puzze di stalle. Qui la neve arriva a cancellare le tracce, si lavora la selvaggina e si mettono sotto forma di violini la selvatichezza dei caprioli, dove le erbe al naso sono già un riflesso condizionato. La mia salivazione è all’apice, quando scopro che sono stati fatti per un privato che li lascia lì a stagionare. La finezza e il palato non si comprano al super-mercato. Se riuscisse a mettere in piedi una filiera, un presidio, un accordo, collaborazioni terrene, se si riuscisse a ridare lustro ad una regione, qui si avrebbe un professionista dal tocco leggero. Senza patina, senza deterministico senso dell’errore, qui si sbaglia per una costrizione, per un rumore di fondo che non può mai andare contro la legge della vendita e della salute. Diego ha in mano un potenziale, ora sarebbe l’ora, sua – dei turisti – delle istituzioni e della moralità da circolo Acli, di sfruttarlo a pieno.

 

MACELLERIA SALUMERIA SEGOR

VIA CHANOUX 42

VILLENEUVE (AO)

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