Piccola frazione di Ponte Nizza. Sul versante destro della vallata che guarda il Passo Penice dalla Lombardia. Cascina, qualche ettaro di terreno, delle stalle e una tranquillità che non può che essere libertà.
Un inno alla mancanza di definizione e di certificazioni. Biologico, biodiversità, biodinamicità si svuotano di senso per travestirsi da ombre carnescialesche che non possono fare altro che impallidire di fronte a questo grande e folle allevatore di tradizione. La sua terra, quel quadrivio di regioni così caro ad Eugenio Barbieri, si è travestito di circostanza e di facilità, allontanando la sua storia, quella fatta di razze endogene e prodotti unici.
Il marketing, George Clooney che non ha comprato lì una villa, la comunicazione labile per pochezza di tempo, l’arrivo di Slow Food che ha deciso di presidiare i prodotti sbagliati e la difficoltà del clima, hanno allontanato l’attenzione, la pagina scritta e i vecchi casali restaurati, lasciando qualche sparuto gruppetto di ingenui poetici, molto oltre il concetto di pazzia, a recuperare la tradizione, associarla al territorio, ridando speranza e gusto.
Coniglio grigio di Carmagnola (che potrebbe diventare il coniglio grigio dell’Appennino, che nessuno alleva e conosce più ma che richiede spazio alla storia…), oche padovane, vacche di razza varzese e cabannina, mora romagnola, pecora frabosana, pecora delle langhe, capra saanen e gallina livornese. Tra tutte queste possibilità di coesione e di frizione, regna la più serafica delle tranquillità.
Gli animali girano liberi o sono distribuiti in stalle comode e confortevoli. I maiali grufolano in mezzo alle vacche. L’uomo non desta nessun segno di interesse superiore al suo arrivo. E questo non è il quadro mieloso e bucolico di quello che andrebbe ricercato da un medio impiegato cittadino. Questo è il regno di Lino Verardo, che alle cinque di mattina inizia a mungere con quindici gradi sotto zero.
“Non è che l’inverno mi piaccia. Preferisco l’estate. Ma glielo devo…”. Mentre torno in macchina, mi spavento a tal punto, da iniziare a pensare all’impossibilità di tutto questo. E non è questione dell’impossibilità di condurre un’esistenza del genere… è un momento di freddo insensato che mi penetra nelle vene. Morirei probabilmente. Ma il pensiero lascia spazio al ricordo della bellezza e di Lino Verardo, uno sfrontato, ceruleo e ricercato allevatore di provincia.
Le sue origini sono liguri (e aver scelto di allevare la Cabannina ne è un chiaro omaggio) e sono negli allevamenti. Il suo passato più remoto riporta scuole di agraria ed iscrizione all’università di veterinaria, lasciata perchè le tredici ore di lavoro non permettevano serietà. Un periodo di transizione in Emilia Romagna, nei pressi di Reggio, e l’arrivo tra le colline che gli hanno concesso la vista di montagne che nascondono il suo passato e il suo mare. Rileva un’azienda agricola ed inizia a rivolgersi con passione verso la tradizione.
La scelta delle razze da allevare è qualcosa che segue la necessità di vivere. Prima erano frisone e latte portato a trasformare da un caseificio all’inizio della valle. Pochi anni. Rottura. Il prezzo, che gli veniva pagato, è diventato, nel suo racconto, l’immagine dello spannung decisivo. Dinieghi, contrasti, voci alzate e la vendita di quella razza da 80-100 quintali di latte l’anno. Rivoluzione e sogno. Molti litri di latte in meno, qualche norcino e macellaio in più e sua moglie a lavorare i formaggi…
– montagnino di vacca cabannina e varzese: la pasta è morbida, con una leggera consistenza. Occhiature continue ma molto piccole. Finemente granuloso. Il colore si sviluppa dal giallo mais della crosta al bianco latte del formaggio. Il sapore è coeso e delicato, abbindola il palato in un retrogusto pieno di latte ma con la freschezza dell’acidità. Assomiglia, con le dovute differenze del caso, strutturalmente alla vista, ad un Murazzano di pecora. La sua ricchezza è nella semplicità che regala. Sereno.
– primo sale e ricotta: il primo non lascia tracce particolari. La seconda, e qui sono in buona compagnia con monsieur Vissani, lascia secchi da quanto è profondo il suo gusto. Difficile al primo impatto, per la pastosità di una lavorazione che protegge la ricchezza del latte che si getta nel finale con sentori di fieno molto netti e prorompenti.
Un assaggio gentile di stalla e neve. Qualcosa che si nasconde nell’indigenza, accondiscendendo alla richiesta di un secondo assaggio ancora più abissale.
– salame di mora romagnola: stagionato non più di tre mesi, si presenta di un rosa acceso tendente al castagno. Polpa e grasso, senza un odore che definisce e restringe il campo del gusto. Possibilità di errore. Via sbagliata. Ritrovato in mezzo ad un campo senza orizzonte mentre masticavo e inizavo a cogliere una stagionatura appena iniziata. Sospensione.
– bistecca di varzese: i suoi vitelli bevono solo il latte della madre e i suoi buoi o manzi solo fieno e cereali. Il taglio non è dei più pregiati e mi ha lasciato comunque intorpidito, quasi esterrefatto. Sapida, grassa e morbida, ecco il niente. E pensare che la maggior parte dei macellai in Italia pensa che la varzese sia una razza unicamente da latte…
Lino è un allevatore, non potrebbe fare null’altro che questo. Occhi azzurri e risata ingombrante, penetra, scava, affossa ed esalta. Grande cultura del territorio.
Uno studioso a suo modo. La schiettezza delle sue parole arriva alla profondità delle decisioni e degli errori. È difficile che non prenda una posizione netta e antitetica, perchè la cosa che mi è sembrata dargli più fastidio è la distanza dalla sincerità. Qualcosa che rimane, a differenza della mondanità di oggidì, così faconda, stravagante e morbida… qualcosa che sappia e che riesca sempre a mostrare un passato fatto di vita e scelte dolorose…
AZIENDA AGRICOLA LINO VERARDO
SAN PONZO
PONTE NIZZA (PV)