Speriamo che risplenda il sole su quei salami… Alberto Lazzari

Ostiano. Oltre l’Oglio. In quella che una volta era la provincia di Brescia. In quella che ancora oggi è un lembo di terra dove l’accento bresciano ha un’ascendenza molto più netta di quello cremonese. A venti-trenta kilometri da tutto e a venti trenta kilometri da nulla. Campagna, nel più classico dei filoni “olmiani”, con la nebbia a mettere la coperta su qualsiasi pensiero non puro… e sull’impudico ragazzo che ha scoperto che l’unica maniera per passare in tempo in quelle lande, che assomigliano al deserto se non assomigliassero a se stesse, è quella di di prendere le curve in derapata con l’ultima marmitta Leovinci montata al posto dei sogni…
…in quella provincia cantata ma dimenticata, quella che genera mostri e che crea diversità, quella che fa la storia e quella che crea la musica. A metà tra il Nebraska e la Val Padana, con un’identità folk al di là di tutto. In quella terra rivoltata e nella stessa terra brinata di nostalgia è nato, è cresciuto, ha fatto il contadino e l’allevatore, si è trasformato (a causa di un camion che non riusciva più a percorrere una stradina, diventata troppo piccola, per andare in cascina a prendere il latte) in norcino, si è sposato, è stato costretto sulla strada della macelleria, si è circondato di luoghi tanto periferici quanto belli, Alberto Lazzari, un uomo che sembra uscito da una lirica di Neil Young o da un riff degli Wilco. Un personaggio antico o come dice lui “che avrebbe dovuto nascere cinquant’anni fa”. Il fantasma di Tom Joad sulla strada diretta in California per cogliere quelle arance che, se non rappresentavano la richezza, avevano almeno il simulacro della speranza. Ecco Alberto, un uomo diviso…
Dopo due parole al telefono, rischio di essere sonoramente mandato a fare in culo. Il suo rapporto con i giornalisti non è mai stato un rapporto di lealtà. A partire da un documentarista, per finire con i giornali locali. Appena accolto in macelleria, dopo averlo convinto ad accettarmi alla sua corte, mi mostra un paio di riviste. Mi fa leggere un trafiletto. Gruppo organizzato, giro tra le cascine. Visione dei metodi di allevamento. Formaggi di capra e visita finale alla sua macelleria. Indica con il dito. Mi guarda e continua a non farsene una ragione. “L’ho scoperto anche io come lo hai fatto tu. Nessuno mi ha detto nulla”. Pare che i giornalisti scrivano (mi fa vedere anche una rivista dove è stato coinvolto in un contest di salami senza il suo benestare), senza consultarlo, che vadano nella sua bottega e ne traggano dei romanzi d’appendice. La veridicità è una brutta bestia, figurarsi la fandonia. E io sto camminando sul filo… speriamo di non finire nella rete…
Vengo da subito attratto dalle sue mani. Vigorose e in perpetuo movimento. La sua facondia mi stupisce. Me lo aspettavo schivo e restio, con le parole da trascinare fuori manco fossero macigni. Invece è un fiume in piena. Racconta, vomita rabbia, si accalora e si emoziona. È un vulcano di pancia e testa. Un’emotività al di là di tutto. Sono rapito da una comunicazione così persuasiva. Non mi aspetto il suo lato pessimistico, ma non posso fare a meno di starlo ad ascoltare, anche nelle rimostranze verso la contemporaneità, verso i suoi concittadini, verso i giovani e verso quell’ignoranza che porta il mondo contadino a vessillo della purezza e poi lo tratta in maniera subalterna.
Poi ci sono le frasi, i suoi aforismi, quelli che non possono fare a meno di affascinare, per la crudezza dell’immagine che contengono, ma soprattutto per la verità di cui si fanno portatori. “Quello viene qui con gli amici. Da Milano. Mi fa scendere in cantina, fa il padrone per mostrare agli altri che comanda, che conosce… Io sto al gioco… Lui è felice… Questo è il livello”. Io stavo pensando la medesima cosa. Mi si ghiaccia il sangue nelle vene. Non avrei saputo colorarlo meglio… Questa è una, ma lo fotografa in maniera fin troppo incisiva.
Scendiamo nella sua cantina di stagionatura (ormai i maiali non li macella più lui, li prende dall’Azienda Bettella, di cui si fida ciecamente…), quella dove tiene i prodotti “per Michele” (Valotti, l’anima della Madia di Brione, l’unico che merita l’attenzione di Alberto… ndr). Il posto è incantato. La muffa e l’umidità ricoprono le volte in mattoni e i muri in pietra. Il fascino blocca le narici e rapprende il respiro. Pancette lunghe oltre mezzo metro ciondolano con la loro cotenna a ricoprirle. Salami stagionati fino quasi ai due anni (“A me non fanno impazzire, ma Michele li vuole così. Si seccano troppo”). Qualche coppa, pezzi di lardo arrotolato, alcuni formaggi (tra cui un tombea di Germano Eggiolini, due salva cremaschi e gli staordinari vaccini di Lagoscuro). Qualche damigiana. Un paio di botti. Una madre acetica. Tutto nel rispetto recondido e profondo verso la materia prima.

Riesco, dopo una lunga contrattazione, a farmi dare un salame del dicembre 2010 (un anno e mezzo di stagionatura). Solo Eugenio Barbieri, tra i conosciuti, riesce a spingersi così oltre. Duro, con un budello difficile da portare via. L’umidità è andata persa, così come l’unto del grasso che, asciugandosi, ha dato profondità al sapore. Straordinario, con una leggera punta di amaro. Qualcosa d’altro, di diverso, di quasi estremo…

Poi ci spostiamo nella stanza delle degustazioni. Tutto recuperato, con l’aiuto di un falegname raffinato, alla peculiarità del tempo che fu. Dal tavolo al camino, dalle vetrine alle scale, passando per i taglieri, i paioli e le murature. Tutto seguendo i dettami di un desiderio da trasformare in abitudine. Quella vista che, tutti i giorni, spazia e rimane incantata.

Assaggio un doppio lardo legato e salato in mezzo, all’altezza della pancetta. Coriaceo al taglio e languido al palato. Di lacerante bontà. Una coppa cotta, asciutta ma ben delineata nei sapori. Un salame (le salsicce le porto a casa e feriscono le mie idiosincrasie al salato. Risottate sfiorano la perfezione), quello quotidiano, quello dei clienti, con un profumo che devasta la stanza. 

Mi fa accendere un pc portatile e mette su un paio di video che lo ritraggono, barba e gilet, nella macellazione del maiale. Dalla sua uccisione (ora fatta attraverso un colpo di pistola, una volta più trucemente per mezzo di un punteruolo), alla pulizia, fino alla cucitura dei budelli e all’insaccatura. Mentre scorrono le immagini (forti ma pudiche, con quell’assenza di ipocrisia data dalla necessità), Alberto racconta, mi mostra le ferite di lavoro e gli strumenti del norcino che fu. Quelli che venivano infilati dentro una cesta attaccata ad un bastone, messi in spalla e portati tra le varie cascine a dorso della più classica delle biciclette contadine. Quello che gli resta in bocca, dopo aver rivisto quei filmati, col suo maestro di norcineria e i suoi vicini di casa, è la rabbia per un tempo che fu e per la bellezza e la comunione che rappresentavano quelle giornate. Ora è rimasta solo la nebbia…. Lui vorrebbe costruire il suo agriturismo, ma la sua volontà è appannata dal bisogno…
Si sente bussare alla porta. Sono le quattro. La moglie gli rivolge qualche parola in dialetto. Pare ci siano dei clienti. Lui ride. Poi ci abbandona e arriva Rossella. Un mondo di differenze e uno sguardo ironico sul marito. Quelle che credevo fossero divergenze incompatibili, rientrano all’interno del gioco delle parti. Alberto e Rossella sono complici, principalmente nella critica e nell’educazione da dare ai loro tre figli (non ovattati sotto la più classica delle campane di vetro…). Hanno visioni molto diverse, edulcorate dall’effetto canzonatura… Dalle anatre alla stagionatura del salame. Tutto diventa un’arena dialettica con passaggi spassosi… come quella volta alla Madia dove, mentre erano seduti a cena, un video di Alberto ha iniziato a prendere possesso di tutti gli schermi del ristorante con la gente che iniziava a fissarlo, nel mezzo di una tempesta vereconda…
“Io sono stato un padre per mio padre (che voleva fare la bella vita) e un padre per mio figlio”. Ecco Alberto, in attesa che la vecchiaia lo faccia ritornare ad essere un figlio…

MACELLERIA LAZZARI
VIA GARIBALDI, 31
OSTIANO (CR)

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