Dove anche l’attitudine alla divisione ha perso la sua urgenza. Qui il limen è stato messo da parte, non ci sono più né conquistati né conquistatori, è un trascorrere di racconti e confinamenti che, sotto terra, hanno lasciato le macerie dell’ignominia e, oltre, il fluire dell’identità. Passando attraverso i morti e il loro innalzamento, il labile è diventato la croce, l’italiano il profeta in patria e tutto il resto lo straniero mai concesso. Qui l’insondabile di un tempo, quello che non riusciva a scendere a compromessi perché il ruralismo era ancora una pecora arrostita a bordo strada, è diventata capacità di mimesi, guardare al di là e al di qua del limite, per porre un rimedio e cercare l’inclusione. Così è possibile trovare di tutto e il cibo diventa il solito paradigma vivido e volgare, che riflette il territorio nelle proprie ripercussioni e nei propri ripensamenti. Qui le facce scavate mantengono ancora l’italiano al termine del diverso, ma dall’italiano hanno intrapreso e imparato che il cibo non è solo comunione.
Dal Carso partiamo e nel Carso torneremo perché Trieste è una città magra, piena di gente in forma, buffet nostalgicamente asburgici, caffè anacronistici (e non antichi…) e un’audacia contenuta. La bellezza si ferma lì. E così decido per un territorio senza orizzonte. Opicina, al termine della sua cremagliera, è l’ultimo tratto di vista. Mi fermo da Roberto Mosenich, pasticciere della Saint Honorè, un passato glorioso e un presente riservato. Dolci tradizionali, creazioni a cui cercare un copyright, cioccolato lavorato in maniera pedissequa, Pinze lievitate, marzapane, Sacher, torta Trieste, Carsolina, strudel alle ciliegie e un ottimo Presnitz sfogliato e ripieno di frutta secca, rum e spezie. Era la fine degli anni ’80, alle spalle esperienze alberghiere nella Cortina immaginifica, quando decide di aprire a pochi passi dal suo passato. Lunghe consulenze con Biasetto e poi una strada da portare attraverso. Prove di aperture di cioccolaterie in centro città, una ventina di persone in laboratorio e un presente che non ha più uno specchio. Procediamo…
Tra Sales e Sgonico. Costretti a lasciare la macchina per una manifestazione sportiva di infervorati su rotella, procediamo a piedi costeggiando doline e depressioni. Arriviamo alla Bajta. Architettura fuori tempo massimo, slava e slavata, di quei posti dove tutto è concesso, soprattutto un bicchiere in più. Irena Vidali e il marito Andrej Skerli portano avanti un ciclo chiuso, in un territorio dove è difficile persino pensare all’agricoltura. Qui non c’è acqua. Fare vini, fieni e allevamenti diventa un’impresa da portare sottoterra, alla ricerca di umidità e di grotte. E così i loro salumi stagionano dentro al Carso, i maiali sono uno stato semi-brado macellato troppo presto, prosciutti piccoli, asciugature nette, sapori a metà strada, ossocolli e lonzini più equilibrati. Qui si è partiti dalla cultura dell’osmiza e si è arrivati a quella dell’agriturismo. Forse manca un po’ di forma e le grotte dovrebbero semplicemente apparire di più, esserci per poterle immaginare. Procediamo…
E Slovenia fu. A caccia di grigliatori di pecore a bordo strada, ricordando eroici viaggi jugoslavi in cui il mattone era distruzione, troviamo ristoranti-bidone da cui scappare diventa l’unica possibilità. Risaliamo verso Nova Gorica, costeggiamo l’Isonzo e ritroviamo il selvatico. Arriviamo fino a Bovec, ci accontentiamo, chiediamo che il dopo pasto ci apra una strada, finiamo nel luogo sbagliato, un minuscolo produttore di formaggio di capra (Igor Mlekuz) da formaggio prescindibile, ci dice di fare cinque curve nella casualità per uno dei prodotti più incredibili della mia vita. Urban e Marko Skander, padre e figlio, allevano la pecora Plezzana, autoctona dal pelo lungo, per fare un tipo di formaggio, una ricotta e uno yogurt, dalla consistenza della panna cotta. Il formaggio (Bovski sir) è una pasta semi-cotta, fino all’anno di stagionatura, meravigliosamente contenuto: sale, struttura, sapori, masticazione. Un gioiello. E basterebbe a se stesso, se non ci fosse quello yogurt originario, senza eguali, inspiegabile e non descrivibile. E quindi non lo descrivo. Il confine vi aspetta! Via crucis verso l’ossario di Caporetto, tutti soldati semplici i morti e via. Procediamo…
Sopra Tolmin. Nove kilometri di orridi e strade strettissime per arrivare in mezzo
al Parco del Triglav, a 800 metri, nella frazione di Cadrg, uno dei posti più remoti in cui mi sia mai trovato. Un po’ di verità non fa mai male. Alberi da frutto, vacche, maiali e capre al pascolo, cani sparsi e la famiglia Boncina (Pri Lovrcu), produttrice di formaggio vaccino (il Tolminc). Silenzio, cena, silenzio e la notte più lunga. Biologico e forme standard, si attendono le stagionature che rimangono nella media, paste cotte e forme grandi, il formaggio non restituisce indietro lo stupore del luogo. Il resto è incontaminato.
Procediamo così verso Uros Klinec… ma quella è un’altra pazzesca storia di un confine in cui nessuno è stato assorbito…