Sulla strada per Rinco nei pressi di Montiglio Monferrato, non troppo lontano da Murisengo. Una radura si apre, appena sotto un bosco, nella maniera di qualche figura geometrica sconclusionata. Tigli, querce e pioppi. Nulla di meglio da chiedere. Il pranzo finito da poco e un sentore di tartufo che spazia verso tutto il Monferrato. Tuber Magnatum Pico di trentacinque grammi appena degustato e appena raccontato.
Chi, dove, come fattura, quanto guadagna, quanto ricarica, da dove arrivano questi tartufi (Alba?), sono tutte domande fuori bersaglio. Monferrato Valleversa, la zona di degustazione, le colline e i prati circostanti, quella di raccolta, i trifolai e i venditori, i brutti ceffi che fanno il prezzo e nascondono la mano fatturante. Questo è tutto ciò che percepisco.
Quello che so: battuta di vitella di piemontese (poco frollata) di Andrea Bosco (Agrimacelleria La Valle) con grattata di tartufo. Il resto è tutto fuorchè in luogo. Fermarsi lì, tuttavia, è stato un dovere. Come un dovere è stato quello di seguire il mio compagno Alessandro a conoscere Emilio Gherlone, un arzillo 71enne, dialetto stretto e ironia visiva. Cappello da cacciatore, fuoristrada fuori tempo massimo, lagotto spelacchiato, quattordicenne, sordo e un filo stralunato, compagno ideale di bevute e di narrazione.
Dopo pochi metri, un cane in rigor mortis, sul ciglio della strada, blocca la nostra passeggiata. Nessun colpo di fucile, nessun segno di violenza. Veleno? Probabile. Ma perchè? La risposta è di Emilio. Pare che i trifolai mettano la museruola alle proprie bestie per un duplice motivo: il primo, e più edonistico, riguarda la possibiltà che il cane, scavando, finisca per mangiare il tartufo, il secondo, più etico, combatte la disumanità organizzata di alcuni competitor deviati che utilizzano veleno-lusinga (solitamente usato per i topi) da far trovare all’interno dei terreni. Eliminato il mezzo (si tratta dai dieci mila euro ma si può anche non accettare offerte per oltre i ventimila), si elimina il concorrente per una stagione o almeno lo si limita ad animali diversi (che si possono spostare verso il mitologico maiale…).
Questo, unito alla reticenza, alle nottate in concorrenza, in cui si possono trovare anche 2-3 kili di tartufi a testa, all’intendimento massonico dell’affiliazione, alle riserve per pochi eletti, agli alberi con i cartelli bianchi a maniera di deterrente e diniego, ai portabagagli sempre vuoti, al clima che è sempre negativo, alla fluttuabilità dei prezzi, all’assenza totale di fatturazione ma soprattutto alla costante irreperibilità, almeno a parole, di materia prima, fanno del tartufaio “di professione” una figura proditoria e puzzolente.
Fortunatamente abbiamo trovato un hobbista, gentile ma con la dinamicità del nascondimento, che pare sia imprescindibile all’aumento del desiderio e del mito, che non ha avuto paura di portarci con lui.
Il mio lavoro sui tartufi non può che essere divulgativo… o al massimo inibitorio…
Due, tre, al massimo quattro metri dall’albero. Difficile trovare il tubero più lontano. Emilio lo sa bene ma camminando tiene il giusto ruolo da Epimenide. Dove ci sono buche, passa oltre, sostenendo come sia difficile trovarli. Ha sì piovuto, ma la razzia non ha lasciato che scarti. Qualche piccolo sassolino. Un tartufo nero tirato fuori dal lagotto e un continuo vorticoso deambulare intorno agli alberi. Puzza di merda e fanghiglia ma, volendo, mettendo da parte la competizione e la compravendita, un’incredibile possibilità di solitudine e poesia, dove la natura va lentamente scoprendosi. Il cane annusa ma non trova molto. Sente ma la gente lo distrae. Preferisce le coccole o il biscotto di ricompensa, unico e virtuoso motivo che lo spinge a cercare.
La dicotomia con il mondo dei grandi è abnorme. I prezzi oscillano, dipende anche dalle lune, dalle piogge, dal periodo (tra settembre e gennaio), tra i 180 euro (onestà, abbondanza, conoscenza…) dal tartufaio ai 1200 euro l’etto (da Peck, in un’annata di particolare magra…), follia spropositata di emiri, giapporicchi e texani con il cappello di ghiaccia… Lì in mezzo puoi trovare di tutto, reticenza, rifiuti, faide familiari (ci sono fratelli che non si parlano più…) ma soprattutto una bontà che dalla normalità può andare a infinito. Venature, sfogliatura e struttura compatta lasciano spazio ai classici afrori di aglio o di formaggio e ai sapori netti di nocciola, fungo, fino a quelli sfumati di acre, di erba bagnata e di unicità.
Descrizione icastica di una giornata rara, di un tartufaio per svago e di un sapore talmente imprescindibile da essere una guerra intestina…
BOSCHI
MONFERRATO – LANGHE (AT – CN)