Treviglio, Pianura Padana e cattolicesimo. Da qui non si può scappare. La si scorge dallo skyline mentre ci sia avvicina alla città, quella nebbiosa devozione che non c’entra nulla con quello che appare. Luoghi tra fiumi, rogge e fontanili, gli angoli perduti di Treviglio non sono più nemmeno in filigrana, sono una lenta processione nera sull’influsso al cambiamento. Conservato e conservatore, con le sue basiliche, i suoi santuari e le sue chiese, l’incedere è apodittico, non mostra lati oscuri, non lascia le certezze per una rivoluzione mancata. Qui, al trivio della Gera d’Adda, gli operai han sempre coltivato gli orti e la devozione, le costruzioni tutt’intorno erano un monito a non distrarsi, ad avvoltolare le loro piaghe sociali, dedicandosi a qualcosa d’indefinito. E così si definisce, si genera, si cresce e si prolifica. Treviglio è sempre apparsa come la reazione di una civiltà.
Qui, in mezzo a ville scrostate e centuriazioni romane, la famiglia Conti porta avanti da una vita e mezza la sua idea di gastronomia, piccola distribuzione alimentare e ancora più piccola norcineria/macelleria. Simone, il figlio dissidente, dopo multinazionali, dopo panificazioni estemporanee londinesi, dove passare da un garage a un panificio è la normale sublimazione del self made man, dopo qualche anno milanese, tra artisti e mangiapane, è rientrato a Treviglio, provando la strada della panificazione domestica evoluta.
La ricerca del grano si è spostata verso mulini a pietra e cereali apparentemente antichi, dalle coltivazioni di Cinzia Rocca a Podere Monticelli fino alle macinazioni di Renzo Sobrino, Simone ha studiato tanto e girato di più. È stato da tutti i panificatori boschivi e ne ha tratto delle conseguenze sul rapporto produzione/vendita, non ha mai smesso di sorridere, e con la sua compagna, Marisol, artista peruviana particolarmente materica, ha deciso che etica ed estetica non potevano prescindere dalla medesima sorgente. E così la panificazione londinese ha cominciato a biascicare un dialetto orobico: cestini bellissimi, il caffè tagliato con i cereali poveri, i tre farri (dicocco, monococco, spelta) lavorati insieme, il grano saraceno a partire da una madre di grano saraceno, frumenti forti tagliati sempre con piccole produzioni meno costrittive, e un lavoro sul lievito difficilissimo da tenere in una panificazione più professionale, ma assolutamente affine ad un discorso di ricerca e di purezza. I suoi pani sono buoni, hanno croste croccanti, nessuna acetica, si asciugano un filo nel tempo – ma le forme piccole e le strutture proteiche influiscono sulla conservazione -, sono in fase di trasformazione e di ingrandimento, rimarranno al di fuori di una clientela di paese alla continua ricerca del disastro nucleare e dell’incidente sulla statale, ma avranno sicuramente un punto di accordo con chi è riuscito a fare il salto dal salutistico al buono.
Simone e Marisol credono ad un progetto di specializzazione e credono di poter rinnovare una gastronomia familiare che attraverso alcuni baluardi si è creata la sua clientela. Soprattutto hanno dei volti disimpegnati al di qua della leggenda. Possono lavorare, sporcarsi di farina, fare le notti, aumentare la produzione senza aver bisogno di cliché, senza raccontare la storia dietro una barba a forma di extension e senza vergognarsi di essere tornati in famiglia, perché l’Italia dei garage non è mai esistita. Treviglio è una San Francisco con meno tram e coi santi fuori dai nomi. I borghi sono l’unica possibilità… E loro hanno scelto e aperto finalmente a Castel Cerreto, rendendo “leziosamente” francese la campagna lombarda…
TILDE FORNO ARTIGIANO
VIA CONTESSA PIAZZONI 7/A CASTEL CERRETO
TREVIGLIO (BG)
l’articolo non parla della produzione di dolci che meritano invece un encomio particolare
fatti con la stessa arte con la quale panificano….e la possibilita’ di acquistare le farine sopra menzionate