Tra il sogno e la realtà… Gianfranco Fagnola

Bra. Una città che richiama la cultura enogastronomica italiana. Qui è nata Slow Food, qui manifestano i formaggi e qui lavorano fior fior di artigiani. Non ha la bellezza senza tempo delle Langhe e nemmeno il fascino misterioso, lontano e occitano delle valli cuneesi. Ma ha la fortuna di trovarsi in mezzo. Di non essere, ideologicamente, lontana da nulla e di non avere l’afa soffocante di affascinare a tutti i costi. Placida è placida, ma ha qualcosa in più. Una sonnolenza ricca ma indigesta. Il cibo sembra una religione, nessuno è al sicuro. È difficile (o almeno, lo è per il mio pensiero…) pensare che qualcuno a Bra possa mangiare male o possa vendersi per un tanto al kilo (ancorchè sia chiaramente il contrario). Ma la facilità di pensiero è vittima del fascino, della paura e dell’ignoranza. E probabilmente tutte tre hanno ottenebrato la mia mente, in questi anni di frequentazioni piemontesi… E’ come se ci fosse un intellettualismo del mangiare, un po’ fine a stesso, un filo raffinato, con un finalismo quasi ideologico, che obnubila i caratteri, le destinazioni, i luoghi e gli artigiani stessi.
Ma al di là di qualche rotonda e di un centro storico appena sfiorato, si erge una villetta dove da oltre ottant’anni la famiglia Fagnola ha deciso di fare pane. Gianfranco, ultimo erede (e forse ultimo epigono e continuatore della specie dei panificatori…), ha semplicemente ultimato un percorso. Ha abbandonato i semi lavorati, la fermentazione alcolica come principio indefesso, il metodo diretto e sta disegnando curve e anditi di un percorso. A mio avviso, e monito per gli astanti, molto lungo e molto colorato…
Umberto Graglia, suo maestro assoluto, pasticcere di prim’ordine, poco conosciuto, grande lievitista e con le orecchie sempre aperte, gli instillò la passione. Quell’humus primordiale che, né suo padre, né i garzoni dalle gambe rotte e dalla malattia facile, erano riusciti a far passare dall’altro lato.
Lievito madre, Ezio Marinato, Piergiorgio Giorilli, Carlin Petrini ed Eugenio Pol. Questi, più o meno, sono gli snodi focali (magari non del tutto fondamentali ma tant’è…) per leggere meglio la meraviglia del suo pane sfogliato ed evanescente.
Pare che il fondatore di Slow Food (annusando da vecchio volpone le capacità del concittadino…) lo portò a Fobello da Eugenio Pol, per mostrargli i pregi della lievitazione naturale. Lui apprese, fupersuaso ma si convinse che ci fossero anche degli errori migliorabili. Da lui e dallo stesso Eugenio.
Giorilli è la cultura, con le sue idiosincrasie verso il nuovo che avanza. E’ stato quel maestro da tenere a distanza, per non compromettersi e per non corromperlo. La cultura è importante e i suoi libri pure (e Gianfranco mi mostra con orgoglio la sua libreria dedita al pane…).
Ezio Marinato. O è allievo o è maestro. Di pratica, di vita e di lievitazioni. Uno sguardo che insegna senza la domanda. E Gianfranco ha appreso. Il suo pane, ricco d’acqua, è l’idea di una panificazione.
Gianfranco ha un’umanità simpatica. Quei lati del carattere che ti inseguono. Uno Steve Carell con un sorriso, all’uopo mantecato e all’uopo mascherato, ma estremamente soddisfatto di tutte le scelte fatte, con quello stupore che non disturba ma apre. Come nel suo racconto del Giappone…
La parentesi potrebbe durare un articolo, ma ci proverò ugualmente. Al mio arrivo, la stanza è satura di personaggi. C’è Gianfranco, che non dorme da quarant’ottore e che non può fare a meno di stare fermo, c’è un giapponese, trapiantato in Italia da 19 anni (con un italiano zoppicante all’Altafini…), convinto che mia moglie sia un classico esempio di sposa bambina, di orientaleggiante reminiscenza. C’è un suo connazionale, figlio del Giappone e con un’azienda produttrice di lievito madre (in tutte le salse: liofilizzato, in pasta, in acqua, in polvere, probabilmente anche al profumo di sushi…), con un italiano scarso ma comprensibile, e ci sono tre compari, in veste di degustatori ufficiali. Questo sì, questo no. A loro piace il pane dolce e morbido. Le lunghe lievitazioni, le farine complesse, la croccantezza non hanno la suadenza della colazione (pare che il giapponese medio utilizzi il pane appena sveglio, a scapito del riso, rimasto come accompagnamento per pranzi e cene…). Le loro facce si dipingono di stranezza al contatto con i grissini e riprendono vigore con il pane con pancetta e formaggio. Questo è quello che vogliono e hanno invitato Gianfranco ad aprire nel loro paese. A firmare una linea di panetterie o di prodotti (ma Gianfranco qui tituba…) e a occuparsi della consulenza. “Quando sono andato in Giappone, non ho dovuto usare i soldi nemmeno per comprare i regali. Tutto pagato. Il fatto che loro mi chiamino in Giappone è un sogno (e qui il suo sguardo si tinge di candido e di ingenuo…). Che cosa vuoi di più dalla vita?”. Riconosciuto e riconoscente. Da buon samurai. E quando mi prodigo in una disquisizione su Mizoguchi e Ozu, il dirimpettaio giapponese, dallo slang altafiniano, alza le mani in segno di Halleluja con un “No cartoni animati ahahahahha… no cartoni animati….”.
Gianfranco si destreggia manco fosse un doroteo. E mentre concede due colpi alla mia botte, mi mostra la sua pasticceria e la sua pasticcera Manuela. Una storia strana, una passione che viene da vicino e una bravura tra l’accennato e il concupito. Se si fermasse un filo prima: negli accostamenti, nella critica, nello zucchero, probabilmente darebbe maggior risalto alle sue capacità che devono rimanere tali e rimanere sempre bilanciate. Epochè ma con stima…

Gianfranco invece nell’assaggio corrobora la forza del suo lavoro. Lievitazioni perfette. Fragranze inconsuete. Sfogliature al limite della sicurezza. Una farina tipo uno per un pane estremamente idratato. Con occhiature irregolari ed ampie vicino alla crosta e una sofficità incredibile. Leggero, etereo e straordinario alla masticazione. Un pane che rimane lì come un monolite e come un paradigma.

Una segale tagliata con un grano tenero, molto fragrante e leggera, con meno profumi della purezza ma con un taglio di mangiabilità in più. Stringato: poco amara.

Il grano duro è quello di Filippo Drago, la lavorazione, invece, è quanto di più discordante e lontano dal Sud Italia si possa immaginare. Pane poco compatto, molto sfogliato e soprattutto poco pesante. I profumi rimangono i consueti del Molino del Ponte. Rivisitazione.

E anche se Renzo Sobrino (con cui Gianfranco ha iniziato a concordare, superando il dogmatismo del biologico) sostiene che prenda le sue farine solo per i campionati Europei (o Mondiali), Gianfranco dimostra quella capacità rara della decisione… a prescindere dai nomi. Li conosce, li assaggia, finanche li critica, ma sempre nella convinzione di una strada unica e mai subalterna… Lui mi è sembrato così, come il suo pane acciughe-noci (“qualcuno” gli ha insegnato che l’acciuga, nascondendosi, esalta l’aroma e il sapore della noce…): poca visibilità e molte mani… quelle che lo protendono verso l’incerto, ancorandolo al suo pane… L’unica scelta possibile…

PANETTERIA FAGNOLA GIANFRANCO
VIALE MADONNA DEI FIORI, 44
BRA (CN)

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