Bronte. Eccoci finalmente arrivati. Profezie, critiche e tappe turistiche non mi soddisfacevano più. L’oculocentrismo greco mi ha sopraffatto. Dopo lungo peregrinare tra prodotti, pistacchi sgusciati, pistacchi sotto vuoto, tostati, solo essiccati e paste di pistacchio, ho deciso di affidarmi. Arrivo a Piergrazia. Provo i suoi prodotti e rimango sbalordito. La voce non mi basta più, voglio associare un volto.
Bronte assolata alle tre del pomeriggio. Eccoci Finalmente arrivati. Ma è un finalmente da gola secca e da chi me l’ho ha fatto fare. Il colore dell’edilizia ghiaccia il sangue delle vene così come il centro non-storico che non arriva mai. Strade strette, grigio preponderante e salite “incunnate”. La meraviglia tarda ad arrivare, così nascosta nell’inerziale accigliato brontese che alla richiesta d’indicazioni, prova a scroccare un passaggio, chiedendo alla “finulidda (magrettina)” (mia moglie ndr…) di riporre le sue terga sul sedile posteriore.
La natura li ha avvantaggiati e il bisogno si è trasformato in grazia. Venti milioni di euro. Questo è l’indotto del pistacchio brontese. Ma all’apparizione dei primi rami, di quelli ricurvi che toccano terra, delle prime foglie, coriacee e ovali, delle prime distese che formano una piana e che vengono squarciate da case e piccole aziende, la mia attenzione e il viatico per la mia povertà spirituale ritornano a casa. È il tendere aristotelico verso il proprio luogo naturale. La mia predilezione diventa animismo e il caldo, felicità.
Qui inizia il regno di Piergrazia Licandro, un folletto di proverbiale semplicità.
Sette ettari di pistacchieta non di tradizione ma di scelta. La sua famiglia non è brontese (per questo dagli accidiosi e angosciati locali viene apostrofata la “catanese”, con quello sprezzo che accarezza rughe arse al sole di una millenaria ignoranza…) ma di San Pietro Clarenza. Suo padre trovò, una decina di anni fa, quel terreno da comprare e da coltivare. Così gli studi di agraria ebbero un’applicazione confidenziale.
Le difficoltà della coltura del pistacchio sono quantomeno note. Si raccoglie ogni due anni (anche se alcuni produttori hanno iniziato a sperimentare la raccolta annuale…), in quello dispari. Quello pari è l’anno di scarica in cui si procede alla potatura verde, tradizione da notte dei tempi e da tenda araba: le gemme, nella loro fase di crescita, vengono estirpate a mano, in modo che la pianta, nel suo riposo e nel suo rapporto con il terreno lavico, possa regalare un frutto aromatico, profondo e delicato.
Il mallo è resinoso, quasi agrumato, si rompe con difficoltà (fortunatamente adesso la tecnologia ha sostituito i sassi…). Fuori si colora di Sicilia (giallo-verde e rosso), dentro tende al violetto e al verde pistacchio. Quello bistrattato e condannato. Ma, si sa, continuiamo ad essere vittime di Grom, dell’informazione, del web e soprattutto dell’ossidazione… è ovvio che un pistacchio tostato (eresia…) o una pasta di pistacchio (e così vale anche per quella di Piergrazia, eccezionale ancorchè lavorata da un mestatore locale, da cui son già passati alti professoroni per ispezionare che il lavoro non fosse una miscellanea di musiche sufi – di organolettia turca – e scacciapensieri…) lavorata con tecnologie moderne non può non scurirsi. Infatti, se si prende una coppetta di gelato al pistacchio (ancorchè sia più simile ad una cremolata…) da, per esempio, Daniele Cuomo (personaggio che mi inquieta…) al Gelato Ecologico di Milano, il colore del gelato, dato la partenza diretta dal frutto, è (… trombe, gonfaloni e suspance…) verde.
Ma tant’è, la mia è una sfida persa in partenza. Se poi ci si mette di mezzo un prelato di origine brontese (che nulla sa ma tutto dice…), confermando quel sentore di merda turco-iraniana proveniente dal porto di Catania… Pare (ma qui la veridicità è sacra, quindi inconfutabile…) che arrivino giornalmente container di pistacchi al porto catanese, partenti in misteriosi camion direzione Etna. Tremila ettari a Bronte ed altri mille ad Adrano come fanno a soddisfare il fabbisogno delle targhette di tutti gli italici gelatieri? Fortunatamente c’è gente come Marco Colzani che si è stufata e ha iniziato a scrivere pistacchio del Mediterraneo. Molto al di qua della presa per il culo…
Ma torniamo all’interno della bellezza intransigente. Il volto di Piergrazia e la sua lotta. Corre, sotto la canicola agostana, con l’alacrità dei folletti. Dura come l’uomo di marmo. Sacra come le donne di paese che si rivolgono a Dio nella convinzione del soprannaturale. A metà strada tra l’intercalare e la preghiera, le parole di Piergrazia vivono di speranza. Quella semplice, quella che resiste ai raggiri, la stessa che si appiglia all’onestà delle persone. Lei ci crede. Questo è lo stupore più manifesto per un urbano usurpatore di slang giovanilistici…
Alleva le api (il miele, soprattutto quello di sulla, è realmente delicato…), coltiva gli ulivi, da cui estrae un olio estremamente fruttato, e coltiva i pistacchi. È un’agricoltrice come ne stanno crescendo molte in una Sicilia liberata dai pregiudizi e dal mal costume. Dove c’era arretratezza, c’erano (e ci sono…) bocche sdentate, bestemmie fluenti e terre devastate dall’ignoranza e dalla pigrizia.
La lamentela deve trovare il giusto sfogo, così come lo trova questa stupefazione della natura chiamata pistacchio che Piergrazia, il suo futuro marito, suo padre e alcuni ragazzi, raccolgono a mano, tra fine agosto e inizio settembre, depositandolo sulle tele e facendolo essiccare, dormendo in compagnia del lavoro, guardando gli aerei della polizia fluttuare nei cieli (pare che più di una volta, durante il raccolto, bande armate di mitra si siano presentate in alcune magioni, portandosi via tutto…) e valorizzandolo nell’assenza di un’egida che non sia la comunicazione e il marketing.
Il mondo di Piergrazia è fatto di nicchie e di felicità estreme… affidandosi, si tiene lontana da pose e da trucchi. Manca dell’idolatria moderna e delle sue mode… a metà strada tra la fierezza e l’ironia stupida dei metafisici metropolitani…
APISTACCHIOLA
VIA CARDILLO, 4
SAN PIETRO CLARENZA (CT)