Un panificatore sulla strada… quasi alla meta… Enrico Giacosa

giacosa

Alba. Una delle capitali gastronomiche del nostro gaudioso Paese. Piena di turisti, di mercati, di imbonitori, di commercianti, di studiosi, di professionisti, di produttori di tajarin, di mistificatori di tajarin, di sublimatori di tajarin, di panificatori, di chef, di pasticcieri prestati alla resistenza e di pasticcieri prestati alla prostituzione, di turisti con il cappellino a visiera e la carnagione diafana, di rotonde, di case nuove, di tradizioni culinarie, di vista sulle colline, di abbandono dei cereali antichi, di acciottolati, di tranquillità, di slow food, di osterie programmatiche, di canaline di scolo piene di vino al metanolo, di personaggi dall’accento azzardato e di vialoni compendio di tutto un viaggio a metà strada tra le vigne, i tartufi e le nocciole. Alba è una città improvvisa, tra il Tanaro e la Ferrero, con quella codardia industriale costretta a guardare conche, avvallamenti e colline, per togliere la mano dal portafoglio e provare a rilassarsi alla ricerca di uno spunto gastronomico.

In fondo al viale che porta via, la famiglia Giacosa ha il suo panificio da decenni. Dove adesso c’è un supermercato mascherato da cooperativa, proprio dirimpetto al di là della strada, c’era la cascina dello zio… dietro la cascina, ai tempi, cresceva solo grano, il loro grano, quello con cui ogni mattina si faceva il pane, senza sotterfugi, con quella pasta acida da modestia senza controllo, necessità aurorale molto al di qua del culto della personalità.

Così Enrico è arrivato al lievito madre per passaggi, per abbandoni e per ritorni di fiamma. Si è scontrato con l’anti-benemerenza della clientela che ha continuato a mangiare panini e francesini, è passato attraverso i semi-lavorati, è rimasto legato alla biga, al lievito di birra e, un giorno, ha deciso di iniziare ad osservare il territorio per trovare o farsi venire un’idea, quella idea che gli cambiasse il mestiere e che cambiasse le abitudini sue e delle sue esigenze. Ha pensato al grano, ha cominciato a girare per agricoltori e mugnai, ha ricevuto le peggiori risposte, si è preso in faccia la chiusura della notorietà, ha incominciato ad utilizzare le farine di Renzo Sobrino (la sublimazione del mugnaio contemporaneo…), ha continuato a girare, è tornato da Sobrino e ha provato a fare una proposta: grani antichi? Renzo, sempre impegnato ma di una facondia senza stanchezza, si è allontanato, è andato a prendere dei grani conservati che nessuno voleva e ha lanciato la proposta. Una miscela di grani antichi (gentil rosso, verna, frassineto e gamba di legno) burattata e rimessa in circolo. I frumenti hanno ricominciato a crescere in collina, i palmenti a macinare e un’associazione di otto panificatori, presieduta da Enrico, a panificarli in purezza. Così si è ridato un senso ad un anteguerra dove questi frumenti venivano considerati migliorativi, dove esisteva ancora una fragranza e un’idea che non prescindesse dalla filiera. Così, anche le Langhe, con gli straordinari mulini e con i campi sempre più infestati, hanno richiesto e si sono riprese un’identità forte, quasi unita.

Il pane ha la base della tipo due Sobrino, ottima tenuta, colore grigio e delle fragranze più manifeste. Manca un po’ di crosta, esce un filo di aceto, ha gli alveoli particolarmente sviluppati e un’apparenza concupiscente. È il lavoro di un panificatore, di un mugnaio e della depressione contadina che si rifà di se stessa.

Le farine convenzionali danno pani convenzionali, senza limiti serali, con discreta tenuta e bell’aspetto. Il lievito madre è riservato in esclusiva alle farine Sobrino, alla segale, al monococco, ai frumenti integrali e ai frumenti burattati. I pani a volte scappano, a volte sublimano, sono il lavoro notturno di un panificatore soddisfatto, che non ha più problemi di fragranze, che non ha ancora deciso se abbandonarsi alla Associazioni di tecnocrati e, soprattutto, che utilizza il territorio langarolo come un mezzo e non come un fine. Umanesimo del produttore e bontà del prodotto sono la realizzazione di un percorso che non finirà mai.

Enrico si occupa del suo lievito, della produzione, condivide con suo padre le nottate, ha messo a punto una viennoiserie semplice ma senza compromessi, sta cercando di crearsi una filiera su varie materie prime, fa l’orto, ascolta i consigli, cambia le forme delle pizze, ascolta i consigli, ha messo a punto una rivisitazione dello sfincione, ma soprattutto ascolta i consigli. Gira, si guarda intorno, non rimane sulle sue posizioni… ci sono sicuramente delle migliorie da apportare, soprattutto sulla serbevolezza e sull’elasticità dei pani, ma sono piccolezze tecniche o da nottate piene di gente e piene d’impegni. Quella piccola corte su quel vialone, unica calamita per una quantità di panifici fuori dal normale, quella vista rilassata, quel portone chiuso, quella voglia di pane, quelle paste di meliga asciutte come da dogmatismo, in quanto bisognose di un contesto tra zabaione e moscato, quel sorriso senza cerimonie su un panificio che sforna ma soprattutto che vende, hanno una rilassatezza artigiana che non può mentire, nemmeno nel bisogno e nella dimostrazione… Enrico è una persona con un sorriso…

 

PANETTERIA GIACOSA

CORSO LANGHE 68

ALBA (CN)

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