Avigliana. Pochi kilometri da Rivoli, qualcuno di più da Torino, la Valle di Susa all’orizzonte e le montagne emerse dalla prospettiva di un al di là troppo distante. Lì in mezzo, intruppata in paesi senza nome o con nomi troppo reiteranti per ricordarne finanche le vocali, Avigliana si staglia limpida in mezzo ai suoi laghi e alle sue contraddizioni. La pianura è un abito con un centro storico, una strada che finisce in bocca alla stazione, un ovale dove continuare a girare e un’incomprensione paludosa che si è portata via fascino e ambizione. È il capoluogo di un distretto nevrotico e culturalmente distante dai centri abitati. È il confine di un’impero disadorno e selvatico che polemiche, ferrovie e fuorilegge in perenne fuga stanno cercando di portarsi via. Eppure, al di là della mondanità e delle lotte ideologiche, è un ambiente sonnolento, quasi latente, molto irretito nella borghesia qualunquista che costruisce la propria comunicazione commerciale sulle strade principali. Come se un facile parcheggio fosse già una mezza vendita.
Dove l’asfalto lascia spazio a sampietrini immaginati, la pasticceria Dalmasso fa capolino in mezzo ad un ambiente di detriti morali e di ragazzi post-scolarizzati. L’interesse o il fermarsi non è la gratificazione principale. Alessandro lo sa bene e mantiene il profilo all’interno di quattro mura, senza caffetteria e con una tradizione estetica illusoriamente antica.
E il padre, quello che gli ha dato la formazione e una spinta da dietro per fargli intraprendere la propria strada, a settantadue anni, ha ancora, insieme alla sorella, la sua pasticceria ad Almese, insieme ai suoi ritmi, a quel desiderio di panificazione che per invidie cameratesche dei prestinai cortigiani non è mai riuscito a mettere in vendita, alle sue trovate anacronistiche e a degli straordinari marron glacé, prestati ad Alessandro per composizioni, festività e diletti vari. Controllati, materia prima d’elezione e territorialità strabordante. Razionalizzazione post-godimento: anche in questo Piemonte, dove la pasticceria ha intrapreso strade proprie e dolci propri, trovare qualcuno che se li faccia ancora da sé è una cazzo d’impresa.
Da qui, a ventitre anni, nel 1996, con una formazione all’Arte Bianca di Torino e poco spazio per la velleità, ha aperto la sua pasticceria, in stile volutamente demodè. Niente servizio ai tavoli, piccola pasticceria, pralineria e una tradizione dolciaria rivisitata. La credenza d’allora diventa l’esposizione di oggi, con due opere artistiche, strutturate per mezzo dello zucchero soffiato, in bella mostra (per farle: una settimana di tempo l’una…) di grande potenza evocativa.
Alessandro non mette da parte la sua timidezza, non si lancia in critiche e nemmeno in elogi. È molto raffinato nel sottolineare l’impossibilità di un giudizio corrivo che non lasci per strada l’assenza di prove. Il suo tempo è il suo laboratorio, il resto è un po’ di Accademia, un po’ d’incontri-interviste (come quelli diventati articoli in un tour della California…) e una conoscenza che dalla superficie non necessita di passare alla profondità. Così si diluiscono disapprovazioni e apprezzamenti. Il suo muro comunicativo è qualcosa di zen e di assolutamente rassicurante. Le velleità giornalistiche svaniscono nella sua pacatezza. È molto più interessato a ricevere una critica piuttosto che a farla. Così si mette in gioco ma senza traccia di spocchia. In assoluta laconicità d’espressione.
“Ti va di provare un’american cake?”. Faccio finta di non capire e vado avanti a rimirare il suo concetto di torta strutturata con la mandorla, di lago rosso al di sopra di una tre cioccolati e di una torta al gianduia che ha la sola criticità di essere dietro un vetro. “Così mi dai un giudizio”. Trattasi di due sponge-cake che pensavo dessero colore alla vetrina. Estetiche non c’è che dire. Con i colori della bandiera, in un classicismo raffinato di una visione americana del dolce che ruba occhio, riflesso pavloviano e acquolina in bocca, attraverso la quantità e l’altezza. Mi chiede se ho un termine di paragone. Il mio diniego lo fa guardare la torta alle mandorle. Così accetto la sfida.
Pur pensando che avrebbe comunque vinto, credevo che mi sarei retto in piedi in un divertissement da un sabato all’anno, da quella volta in cui l’America del dolce lasciò della qualità nella quantità. Niente di tutto ciò. Niente di così succulentemente altezzoso. Niente occhio lugubre al di là dell’oceano. La torta… semplicemente un capolavoro. E anche gli inserti, tipo smarties sulla pasta di zucchero esterna, corroboravano piuttosto che dividere. Pan di spagna illusorio, attraversato da crema pasticcera e cioccolato. Nulla oltre la semplicità e la rivisitazione. Ogni volta che mi torna in mente, inizio ad agognare.
Prosaicamente, rientro in laboratorio. Anzi nei due laboratori. Il primo, dietro il locale, ricavato dagli uffici e dai caveau di una filiale di una banca, ordinato, discreto e quotidiano. Piccola pasticceria e finissaggio. E così la vetrina assume le sembianze della prospettiva. Vassoi d’acciaio stretti e lunghi da immaginazione già venduta e una varietà di mignon strutturate ed eleganti. La tradizione piemontese racchiude il pasticcino in forme e dimensioni impercettibili. Almeno alla vista. I bignè sono racchiusi al di sotto di un sottile bottone e rilasciano una sofficità quasi disturbante per quanto nuova. Ecco, credo che la pasticceria di Dalmasso possa identificarsi sotto l’egida della diversità. Una crema vanigliata d’impatto, il gianduia, addentellato a se stesso, il cioccolato e lo zabaione. I pasticcini tagliati con la ciliegia, le mini cupcake non tanto d’ordinanza, la pasta di mandorla morbida e forse un filo troppo aromatica, la crema chantilly a decorare e a riempire senza invadenza, le sfogliette e le raffinate paste frolle senza la smania di apparire. Come tutta la sua pasticceria. Eccezion fatta per delle cialde di cannoncino, vuote e imponenti. Ne riempie un paio con crema pasticcera. Sfoglia da ingredienti tipici (anche il burro Granarolo al posto del Corman e Della Giovanna nelle farine a prendere il posto di Quaglia…) e impatto gustativo eccezionalmente soffice. Friabilità e poi contrasti. Niente altro da aggiungere. Ah sì, una bella pralineria, senza eccessi gustativi, sia nel cioccolato che nel ripieno, con un ottimo genepì a corroborare il suo desiderio d’assaggio.
Il secondo laboratorio, 450 metri quadri, nato in collaborazione con un’azienda di yogurterie, è dedicato a gelati, semifreddi, torte e lievitati. La madre è piccola e legata. Nessun aroma e nessun assaggio. Almeno per ora. Le torte allo yogurt sono semplici e quotidiane. Il gelato è estremamente concreto per essere un pasticcere. Nonostante alcune materie prime, non proprio d’elezione, il contrasto con i colleghi è quasi disarmante. Nonostante un’ottima struttura, Alessandro si è spinto anche al gusto, fottendosene della semplicità del lavoro, dei semi-lavorati, delle “marmellate pre confezionate” e dell’insipienza del cliente finale.
La decisione della collaborazione nasce dall’esigenza di trovare un dolce che possa andare bene per la ristorazione, che possa lasciare allo chef il lavoro di chef e al pasticcere quello di pasticcere. Nessuna velleità e nessuna commercialità da catena di montaggio.
Alessandro, con l’occhio placido di chi ha dormito la notte, senza lo stress da competizione o da mercato compulsivamente eclettico, si alzerà anche il prossimo martedì senza la necessità di dover imporre, di una traccia da lasciare, già abbondantemente sommersa da mirabili tentativi e da più mirabili soluzioni. Nella convinzione che esistano molte pasticcerie, molti errori e molte possibilità. La sua è una delle tante… non c’è smentita… c’è solo un però… lui è quasi invisibile, così lontano da essere perlopiù sfuggente… è sempre oltre l’espressione del dolce… è in quel luogo eletto dove lo stupore non è un palato ma un umore…
PASTICCERIA DALMASSO
CORSO LAGHI 10
AVIGLIANA (TO)