Erba. La base delle Prealpi. Nessuna facile definizione. Molte rotonde e passaggi a livello e nessuna tipologia fascinosa, neppure nelle file davanti alle botteghe. Che rimangono casalinghe. La Brianza operosa e un po’ sbiadita lascia traccia nelle ciminiere e nelle macchine nero-flessuoso. Erba è una buona base di partenza. Per i laghi, per i boschi e per i quadri impressionisti, quelli che traslitterano castagne, canne di fiume e campanili a mezz’aria in definizioni da pianta delle streghe. Avrà pure avuto un’origine, un albore, degli antenati, ma quel che resta è una frontiera di passaggio dove continuare a parlare al cellulare e ad ascoltare un brano di psichedelia texana. A meno che di non volersi fermare alla Pasticceria Sartori, quell’avamposto desertico riassumibile in eccezione.
Rinnovati non da molto il laboratorio e da meno di tre mesi tutta la struttura del negozio, a livello estetico, senza badare a funzionalità e comodità, è una chicca ancora più eccedente. Di quella bellezza lasciva, senza la presunzione di un format ma dissolutamente colorata e arredata nell’abito di un giorno qualunque. Ci sono sedie più imperiali, tavoli da San Francisco Bakery, tavolate conviviali, arredi shabby chic e molto vetro. Su tutto a predominare è il Bianco. Candore, yogurt, lievito madre, gelato al limone, crema di riso e tazzina da caffè.
Anna e Roberta hanno preso in mano una delle insegne storiche della Brianza, uno di quei posti che ha provato a portare oltre l’identità dolciaria della pasticceria lombarda (che una volta era milanese…). Loro padre Francesco, da queste parti, è stato il dolce per generazioni. Dagli incontri con Luca Caviezel alla messa a punto di Un gelato, dalle paste lievitate fino allo yogurt, incredibile acidità di base, nessuna aromaticità altra, poco latte e un filo di dolcezza nel finale. In assenza di vacche allo stato brado e di stalle mungenti, un prodotto da pasticceria con la finezza di una rivisitazione.
Francesco ha dato le basi ad Anna per poter spaziare. E così lei ha fatto. Con timidezza, con quel senso del pudore che la lascia a metà strada tra un post-femminismo da romanzo a tesi e un disinteresse alla continua sfida. Le personalità ingombranti, il mondo prettamente maschile dei pasticceri, i concorsi, i corsi e le dimostrazioni sono sempre stati un luogo dove rimanere senza parole. Quelle che sarebbero servite per smentire, per protestare e per blandire. Ma alla fine la creatività si sarebbe svilita nella critica. E così ha deciso di portare i suoi studi agronomici in pasticceria. Per definire, con alcuni eccessi ma anche con alcune provvidenze, una linea dolce che del salutistico non perdesse la bellezza.
Un tunnel di cinquanta metri collega pasticceria a laboratorio. Credenza, forni, magazzini ma soprattutto gelateria. Sorprendente. Autoclave, pastorizzatori, vasche di maturazione, verticali, yogurtiera e, in mezzo, un tavolo per rifinire le torte gelato. Il sogno di qualsiasi gelatiere. Un nitore funzionale.
Giuseppe, il marito di Anna, tra le stravaganze del racconto, è la quadratura del lavoro. Organizza tempi e luoghi senza la necessità di un passato infarinato. Quindici persone che ruotano tra laboratorio e bottega, spazi quasi immensi e un’immagine di rilassatezza ben oltre le pose. Il classicismo della pasta choux e della crema pasticcera viene svuotato dalla troppa presenza di vaniglia e viene ammorbidito da questa frittura-non frittura che lo riporta verso sud ma soprattutto verso un’origine mantenuta segreta. Di una leggerezza sorprendente ma senza contrasti. Un filo eccessivi i lavori sullo zucchero, dove le acidità, ogni tanto, cadono di significato. I succhi sono un filo vuoti, con un’acidità ricercata, e la crema di riso e mandorle, totalmente prvia di zucchero, è un’immagine di salute che il palato ha bisogno di assimilare. Il gelato si “spezza” un filo troppo, probabilmente per troppe proteine, ma ha un ottimo ritorno del gusto. Persistenti retrogusti del limone, calibrate le tostature della frutta secca. Anna ci sta lavorando, ancorché abbia in mano un prodotto estremamente pulito. La straordinaria consistenza del budino è stato lo stupore più inaspettato. E c’era una sfida in atto.
Il lievito madre, particolarmente lattico, in bagno d’acqua senza compulsioni, è il pregiudizio di lievitati già mangiati. Niente farine, niente uova, poco burro e niente sovrastrutture. Lievito e sviluppo sono indicatori troppo forti. Il panettone è estetico, rilassante, grasso ma senza sovrappeso. Occhiature filate alla perfezione e il solito colore carotenoide.
La Brianza è il Panettone. Troppi indizi… Milano ha avuto bisogno di aperture, di barcaioli, di promesse, di laghi e di neve. Probabilmente per pensare o probabilmente per non tradurre l’ennesima tradizione. Qui, è tutto così atavico da apparire fuori tempo massimo. E così si riescono ancora a fare dolci, tenendo la dolcezza non come intenzione d’essere ma come senso civico. Quindi, anche ad Erba, c’è la mostrazione di un senso. Fermarsi ha un perché. Anna ha quello sguardo tenue senza dottrina. Il suo percorso è un tentativo, una strada diversa d’induzione. Un procedere per errori e degustazioni, sguardi di richiesta e mai di imposizione. Così, ogni mattina, entra in laboratorio, scoperchia il suo lievito, lo guarda e lo assaggia. In armonia. Ecco il punto.
PASTICCERIA SARTORI
VIA VOLTA 8
ERBA (CO)