Una delle molte frazioni che si disperdono sui crinali che guardano Orvieto. Il lago di Baschi con i suoi misteri, i suoi cuochi e i boschi di cinghiali a corredare il tutto con un tocco di sapido pressappochismo che, per me, ignorante disperso in luoghi favolosi e quasi mistici, sa tanto di predellino. La salita all’agriturismo è un connubio di curve e vista, che mi fa perdere entrambi. Modo di guidare marocchino, da abbaglianti notturni in vista del miraggio chiamato caravanserraglio, e occhi abbacinati da paesaggi più autentici rispetto al Toscana-style. Senza quelle costruzioni “turista-americano-prego-si accomodi” che ogni tanto sporcano la sincerità.
Mi accoglie un cartello in ferro battuto che recita queste parole: “Vendita formaggi e ricotta”. Mi stranisco. Ma la spiegazione arriva da lontano. Pare che qui la ricotta sia una religione pagana. Non importa se di pecora, di vacca o di capra. Le signore del paese, come sottolinea più volte Åste, la ordinano in settimana per la domenica sera. Afrodisiaco rurale o dedizione ad una tradizione che vive la festa nel rito?
Prima del mio arrivo, mi accoglie una telefonata di Flavio Cova. Uno dei quattro. Milanese trapiantato in Toscana e trasferitosi nuovamente in Umbria. All’inizio, scambio le difficoltà di una conoscenza telefonica, per indifferenza. Poi, dopo essersi scaldato su alcuni particolari, mette in mostra una facondia inaspettata. Non può presenziare al nostro incontro, ma riesco a cogliere la comunione d’intenti che ha portato i quattro a condividere casa e lavoro. Una volontà al di là di tutto, anche delle più banali comodità. Qualcosa che assomiglia ad un punto e a capo. Partito dalla Toscana (dove le cascine da ristrutturare avevano prezzi inacessibili…) e arrivato fino alla vecchia strada che collega Orvieto con Todi.
Ma qui non trovo lui. Trovo sua moglie Anne Line e sua cognata Åste. In più ci sarebbe un fantomatico franco-tedesco, tutto fare, da Flavio presentatomi come prussiano, neanche fosse Kant sui ponti di Konigsberg, che a breve (in quanto il suo tempo lì sembra essere finito, in quella che la mia immaginazione riesce a creare come un’estetica colorita e molto western…) andrà via. Un uomo di Laramie, chiaramente senza volto e probabilmente senza un domani. Un carpe diem che ovviamente io non ho colto. Ma ogni tanto è passato nei racconti…
Quindi cosa rimane? Io, mia moglie, le due sorelle Redtroen e una coppia di turisti svedesi, persuasi dal formaggio come il sottoscritto dalle lingue morte. Nel loro discorrere con Åste, che seguo come fossero delle lunghe onomatopee, colgo un paio di volte la parola Philadelphia, per inverare la meraviglia, prodotta nel loro passato d’insani mangiatori di polpette ai mirtilli.
Agriturismo, coltura dell’olivo, allevamento di capre di razza camosciata, cinte senesi e pecore Ouessant, preparazioni di salumi (per ora solamente per uso privato… qualche pancetta e qualche prosciutto… ma è meglio che non riveli altro…), caseificazione del latte caprino, agiturismo con stanze annesse, qua e là qualche manicaretto e gestione, da parte di Anne Line, di un lievito madre per la panificazione casalinga (che a me è sembrato in fermentazione acetica assai accentuata… ma tant’è…).
La scena potrebbe tranquillamente trovarsi all’interno di una tela di George Grosz, un caos assolutamente giustificato dalla passione e dalla modernità. Così, senza il pensiero del dopo, del mio inglese zoppiccante e della bellezza stordente dell’intorno, mi appropinquo verso il caseificio.
Qui la padrona assoluta è Åste. Preparata e solerte. Ha imparato a mangiare da piccola, in una delle rare famiglie norvegesi dove la cultura appariva dietro una fiammella. È venuta in Italia con altre mire e si è ritrovata in Francia, non lontano da Parigi, ad imparare il formaggio da una chevrier francese che sfiora il leggendario nella bravura. L’impostazione non può essere che quella, nonostante l’Italia, ma soprattutto una regione come l’Umbria (nonostante la pecora sia in estinzione coatta con la crescita dell’urbanizzazione e della facilità tecnologica…), non siano posti così facili per prezzi e gusti.
Crottin, Sainte-Maure de Touraine, piramidi, Camembert. Le derivazioni sono semplici, i risultati assolutamente rapsodici e stupefacenti. Carbone vegetale per un tronchetto che rilascia morbidezza piuttosto che mantecazione, di una bianchezza rilucente, con quel filo d’acidità data dalla cagliata e dalla poca stagionatura. Piramidi e crottin stagionati a lungo (ricordano alcune lavorazioni di Battista Leidi). Muffe naturali ricercate in celle frigorifere piuttosto che in grotte (ma a breve arriveranno, con buona pace dell’Asl…), proteolisi accentuata sulla crosta ma senza una mantecazione della pasta che non sfrigoli al contatto coi denti. E qua Åste è lapidaria: “son buoni, ma quelli che io amo di più sono quelli cremosi…”. Colore giallo napoli, pasta liscia, dura, fragranze controllate e sapori che spaziano dal piccante al floreale con una punta fungina così lontana da tutto…
La predilezione è quella per la coagulazione lattica. La presamica viene fatta solo la domenica per recuperare il siero per la ricotta che, a sentir loro, è nell’ortodossia delle ricotte caprine, ma che a confronto con le compagne ha una setosità e una cremosità mai sentite prima. Chiedo se è stato aggiunto latte. Mi viene opposto un diniego. Quindi eccezionale? Probabilmente sì… le presamiche vanno in stagionatura. Più o meno lunghe. Crosta terra d’ombra. Gusto tipico. Rarità per i loro formaggi. Ma entrambi concordiamo nella normalità… il latte di capra ha una caseificazione che trasforma la cortesia in selvatichezza. E Åste la rispetta a meraviglia. Ph controllato in maniera ossessiva, così come la temperatura. Spino in acciaio. Lavorazione semplice, affinamenti di chiaro stampo francese ma senza eccessi. Oltre, c’è solo una pasta molle con muffe inoculate (alla maniera del Camembert) che proteolizzano la crosta, regalando una formaggella dal piccolo scalzo, bianco candore e dal sapore delicato.
Quel che resta: i miei occhi, il suo lavoro e le sue parole, i cenni del capo degli svedesi e mia moglie che si finisce la cagliata in eccedenza con gli occhi strabuzzati. Qui rientra Anne Line e la sua bellezza slavata…
Non saprei definirla in maniera univoca. È come se avesse visto e presentito già tutto e già oltre. Ha quell’assenza di trucco che la riconcilia con la serenità di un punto di approdo, da del tu alle cinte senesi e alle capre, a cui si accompagna nell’ascolto della musica classica e sorride inter-detta quando le chiedo la provenienza del nome (al loro arrivo, gli era stato detto della presenza di una fonte acquifera… la ricerca estenuante al ritmo di “ma la falda?” e l’approdo finale hanno strutturato un’eponimia bucolica)… stregante e fascinosa…
… sono passati anni e probabilmente passeranno decenni, ma quell’istinto di sopravvivenza che trasforma l’ordine in fascinazione e incredulità appartiene a questo luogo e ai suoi abitanti… in fondo basta crederci…
FATTORIA MA’FALDA
STRADA STATALE 79 BIS KM 21 LOC. PRODO
ORVIETO (TR)