Valgerola: il Bitto fino alle origini…

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La Valgerola d’autunno ha quella magia rara che spiega meglio al mondo la sua chiusura, quella bellezza racchiusa in colori che non sono più passeggiate e fatica, ma cominciano a mostrarsi come lunghe attese dietro un vetro innevato e non realizzato, tempo su tempo per aspettare l’alpeggio e i pantaloncini corti. L’autunno è luogo di lunghe discussioni, di analisi, di lunedì mattina senza speranza e senza economia. Qui si va in letargo, perché la chiusura deve essere prima di tutto tepore e in seconda battuta conservazione. E così le labbra nascondono i denti e l’introversione può tornare a dominare la maniera di accoglienza. Il fiume Bitto scorre fin che ancora ne ha possibilità e su Gerola Alta si chiude un cielo di sfumature arancioni. Abeti, larici e faggi non lasciano spazio all’immaginazione. È tutto lì, scritto, ma con fascino. Senza parola e lontano dalla commercialità che però un luogo del genere è come se reclamasse. E così ci hanno pensato Meister Ciapparelli e i suoi dissidenti a creare una corte bagnata alla fonte.

Il Bitto nasce lì, si estende in Valtellina, e ritorna lì. Prende il nome dall’omonimo torrente e i retaggi storici lo portano indietro in un tempo senza volti. La denominazione di origine protetta non ha spostato la produzione estiva a tutti i mesi, ha concesso un’alimentazione più lasca, un uso del fermento selezionato e la possibilità di non utilizzare latte di capra. Così si è formata, sotto l’egida di privati, appassionati e comunicatori, una forma di tutela, giuridica e produttiva, che ha portato alla formazione di una squadra di “ribelli”, di poco più di una decina di unità, produttori nelle Valli del Bitto del Bitto Storico.

Oggi, che dopo vent’anni di ingerenze, lotte e scaramucce, la questione del riconoscimento è andata a buon fine, con ottima pace della Dop che continuerà a chiamare il proprio formaggio Bitto, e con cattiva pace di quei produttori, che dalla Val di Lei alla Val Masino, han continuato a produrre formaggio in alpe con una coerenza rara, senza stravolgere economia e dinamica, il Bitto delle Valli del Bitto può trovare pace nella recita della sostenibilità a tutti i costi. Perché se è vero che è più etico vendere un formaggio a 100 euro/ kilo rispetto ad uno a 4 euro/kilo e prodotto con latte in polvere e cagliata scongelata, è altresì vero che la follia dell’imposizione e del pareggio di bilancio non deve tralasciare tutto quello che c’è in mezzo tra il Bitto storico (o il Bettelmatt o il Castelmagno) e la merda plasticata venduta con il nome di formaggio. Ci sono una miriade di produttori senza tutela che continuano a creare meraviglie con una sostenibilità encomiabile.

E lì che i Ribelli devono trovare pace, cercando sì di rivelare leggende, formaggi autografati, forme da regalare e da far stagionare, ma con meno enfasi. Perché la casera di Gerola Alta è un luogo straordinario, particolarmente illuminato, ben tenuto, senza nessun ammoniacale, e i formaggi, in primis le scelte di Alfio Sassella e della sua Alpe Cavizzola, sono perfetti, pieni, con occhiature accentuate nel tempo, retrogusti di sottobosco e dolcezze che si orientano con la stagionatura senza mai diventare trigeminali. Anche nelle forme meno fortunate, il sapere di queste valli, dei calécc e di questa casera, che spinge la mitologia dei suoi affinamenti fino ai dieci anni, è legato indissolubilmente all’erba e alle condizioni climatiche. Ogni prodotto è diverso, come è giusto che sia ed ogni produttore deve ricavarci un’anima e non solo un’indulgenza. Ecco, se la perfezione lasciasse più arbitrio, probabilmente non sarebbe perfezione. E il tempo gli ha dato conforto… su questo mi sono ricreduto e ho messo la mia dedizione in pace, in un girone che riesce finalmente a guardare i consorzi senza inorridire…

CENTRO DEL BITTO STORICO

VIA NAZIONALE 31

GEROLA ALTA (SO)

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