Borgata Superiore. Marmora. 1530 metri. Estate e case aperte. Una decina di famiglie rilassate si godono il passeggio di esploratori e refrattari metropolitani alla ricerca del selvaggio. Si abbandonano le macchine, si beve acqua di sorgente, s’inala l’odor del fieno e ci s’imbatte in borgate e cimiteri che determinano ancora colori, che mostrano affreschi, che non hanno sostituito il compensato al legno e che si trovano desiderosi al di fuori delle curve, in quell’immaginazione che si nutre continuamente della scoperta. Questo d’estate. Poi cambiano le stagioni, arrivano le nuvole, il Monviso si fodera, le giornate si accorciano e il freddo comincia col lambire per finire col coprire. Iniziano le nevicate e le gelate, le strade s’imbiancano, le borgate si svuotano e qui su, tutto l’anno, rimane solo la famiglia Serra. Sei/sette persone in tutto. Tre giovani, due studenti che vanno avanti e indietro con la corriera e uno sciatore di fondo, Sergio, sua moglie Valentina, suo fratello e sua madre. Il risicato resto sono qualche decina di vacche Piemontesi al pascolo e un ricovero per il grande freddo. Continue reading Iconoclasta solitario irriverente allevatore… Sergio Serra
Mese: agosto 2017
Lou Bià: agricoltura di montagna… Monica Colombero
Borgata Torello. 1400 metri. Le frazioni di Marmora sono poche meno rispetto ai residenti invernali, un Piemonte valligiano che è sempre fedele a se stesso, comuni sparsi ed espansi dove l’eco è l’unica forma di relazione. Le case abbandonate si sovrappongono ai campi di ombrellifere, i boschi diventano cupi nelle diramazioni, i cimiteri, nella loro irraggiungibilità, sono viaggi di settimane tra lo spirito e la neve. E quando arriva la grandine, è meglio trovare un riparo. Qui la natura non scherza, non prende le misure, non le interessa il piacevole e il ritorno, nelle borgate di Marmora l’affezione è una conquista, gli affreschi abbelliscono le case e l’invito a rimanere ogni tanto si trasforma in un obbligo. Quando le nuvole si addensano e il Monviso scompare in lontananza, il fuoco, anche ad agosto, diventa il desiderio prima della chiacchiera. Per caso, sfioro soltanto la sventura e mi trovo seduto a Lou Bià, agriturismo rurale gestito da Monica Colombero, una donna che ha reso l’isolamento più impercettibile. Continue reading Lou Bià: agricoltura di montagna… Monica Colombero
Alpeggi al femminile in Alpi Cozie senza fine… Roberta Colombero
Alpe Valanghe. Valle Maira. 2100 metri nel territorio di Marmora. Dolomiti piemontesi al confine con la Val Grana e la Valle Stura. Molta roccia, ciclismo eroico e vie d’arrampicata. Qui non ci si arriva per caso. Soprattutto se la partenza è l’altra parte del mondo. È una missione conoscitiva che mira all’intimità, a quel contatto tra uomo, roccia, cielo e cibo che solo determinati alpeggi trasformano in dono. Quindici kilometri dalle ultime borgate per inerpicarsi tra asfalti dondolanti, sterrati, vacche al pascolo in mezzo ai ruscelli, grandinate fisiologiche, profumi di sottobosco, abeti inquieti e tutta una serie di rumori silenziosi che potrebbero addormentarti in un attimo. Qui bisogna abbandonare la meta e la rincorsa verso l’ottenimento. Nonostante la stanchezza e il dolore alle braccia per le centinaia di curve, la sveglia impastata e la solitudine da ruota bucata sempre dietro l’angolo, è necessario lasciar da parte la logica discutibile del dover trovare a tutto una definizione. Tornare un po’ meno uomo e avvicinarsi ad un senso comune che lo sguardo di due occhi acquamarina mettono a soqquadro per un’intera mattinata. Roberta Colombero ha 28 anni e alpeggia da quando è nata. Continue reading Alpeggi al femminile in Alpi Cozie senza fine… Roberta Colombero
Maestri in pratica… Adriano Del Mastro
Monza al calare dell’estate ha una somiglianza meno netta, una borghesia meno manifesta, una simmetria che ogni tanto si perde. E così possono uscire anche le ombre periferiche, quei reietti che sfruttano la vacanza per scrostare un po’ di impavido e tirar fuori una bruschezza di città che, qui, non si percepisce quasi mai. Da queste parti il revisionismo borghese non ha mai fatto una piega, si è sempre confuso in quella medietà modaiola che dall’abbronzatura e dalla suola bianca non ha mai spostato la propria tronfiezza, comprando le medesime maschere in un tempo che si è sempre mantenuto al di sotto. Delle autostrade, della barbarie, dei locali nati tardi e di quelle improvvisazioni umane che nel ghetto e nelle aree agricole hanno rigettato l’idea di Brianza, mai accettata e ancor meno compresa. È come se fosse tutto ovattato, anche il Lambro e le sue fabbriche, anche i conventi e le loro birre, anche gli spacciatori e i loro cantanti, in quel sopito che è sempre stato reazione. Continue reading Maestri in pratica… Adriano Del Mastro
Giappone #5: Monte Koya e Osaka
Wakayama è una città che non aspetta visitatori e così ripartiamo direzione Koya-San, uno dei luoghi più sacri del Giappone, centro monastico per lo studio del Buddhismo e sede dello Shingon. Qui Kobo Daishi, dalla Cina (stranamente…), mise la pietra e l’esoterismo, edificandoci un luogo unico, complessi di templi pittoreschi, un cimitero con lapidi senza soluzione di continuità, cedri enormi, luoghi spettrali, torii vermiglio, altari in mezzo ai boschi e una proporzione che, al di là di un turismo ordinato, comincia col sole e termina alle 17,30 all’interno di un monastero dove si cena, si dorme e si cerimonia. Qui si mangia la shojin ryori, una cucina vegetariana (da cui sono esclusi aglio, cipolla e spezie perché troppo coprenti) essenziale ma non povera. Goma-dofu (tofu di sesamo), alghe, verdure e aromatizzazioni leggere così che il pensiero possa vagare e il corpo dormire… Continue reading Giappone #5: Monte Koya e Osaka
Giappone #4: Wazuka (piantagioni di tè verde) e Yuasa (dove nasce la salsa di soia)
… E così lascio la metropoli alla metropoli, incrociando il Giappone per andare incontro ad una di quelle frenesie vicine al compimento. Destinazione: Wazuka, distretto di Soraku, prefettura di Kyoto. Uno dei luoghi dove è nata la leggenda del tè verde giapponese. Dal tredicesimo secolo e dalla solita importazione dalla Cina. Si arriva, quasi per caso, si parla solo giapponese, il resto sono gesti rituali, imposizioni, movimenti deboli e spiegazioni raffinate. In mezzo ai declivi, sotto una pioggerellina nebbiosa, scena di sparuti tempietti, l’antropologia si sviluppa lungo un fiume che divide le piantagioni del tè tra filari estremi, filari coperti e filari a ridosso della strada. La raccolta è in corso. Il Gyokuro e il Kabusecha aspettano di essere liberati dalla penombra (un paio di settimane), il Matcha di essere polverizzato, il Sencha e il Bancha di essere raccolti sotto il picco di un sole che non c’è mai. Questa è una giungla fuori latitudine con umidità pazzesche e colori rarefatti. Nessuna fermentazione e nessuna ossidazione, il tè rimane verde, vapore, asciugatura, essiccazione e raffinazione. Il Gyokuro sotto i kabusè (coperture) deve raggiungere l’umami, l’identificazione di un popolo, l’ouika (incenso dolce come le alghe marine), mentre il Sencha, quel brodo vegetale da cerimonia del tè fuori tempo massimo.
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Giappone #3: Tokyo
Shinkansen fermo a Toyama per un’ora e mezza. Causa piogge torrenziali nella zona di Nagano. Un evento di una rarità emancipata per cui anche le tv locali mi immortalano nel mio cercare alacremente informazioni e cibo. Arrivo comunque a Tokyo. In quel mostro a nove teste, tutte le certezze vengono a decadere, in primis la pace profonda e la pazienza atavica… ma di avi senza il mio cognome. Shinjuku è quello che tutti vogliamo immortalare, con i suoi grattacieli, le luci, il concerto del Justin Bieber al wasabi sullo schermo per tutta sera, la testa di Godzilla che esce dai palazzi, i grandi magazzini che i nostri sembrano il pizzicagnolo sotto casa, il porno soft di Kabuchiko, i buttadentro, le straordinarie sardine in sashimi di Nakajima, le Chanel vendute come fossero bigiotteria, stazioni della metropolitana senza necessità di uscire per vedere la luce, serialità di qualunque tipo, studenti in preparazione agli esami, folle disumane, folle sovrumane, molto controllo e il primo inferno giapponese: Omoide Yokocho, il regno degli Yakitori. Sudore, caldo, notte, turisti e locali, posti angusti, grigliatori d’eccezione, qualità altalenante e tante tappe. Il fumo è la costante di ogni seduta e di ogni spiedino. Era il modo di sfuggire dei soldati americani, ora è il Golgota estraniante per dimenticarsi di avere una camicia annodata e dei palazzi da contemplare come fossero pinacoteche. Ma Tokyo è anche e sopratutto altro… Continue reading Giappone #3: Tokyo
Giappone #2: Matsumoto, Okuhida Onsen, Takayama e Kanazawa
…Treno fino a Matsumoto dove c’è uno dei tre castelli più importanti del Paese. In Giappone il tre è maniacale perfezione e così ci si adegua, le ali del corvo di Matsumoto si allungano sotto le nuvole, i fiumi danno un’aria rilassata alla città e la soba (zaru e kake soba da Nomugi) di grano saraceno è strepitosa: un’ottima propedeutica alle Alpi.
Che arrivano rapidamente, con i loro macachi, i loro orsi, le loro piantagioni di banane in serra, gli incredibili onsen che tutto bollono con acque sulfuree che sgorgano in mezzo ai paesi, con le case in stile gasshō-zukuri, emblema di povertà contadine, di distanze siderali tra un’abitazione e l’altra e di maniere edulcorate per tenere lontane le tempeste di neve. Superata la notte di ricreazione, si scorgono in lontananza le prime case di Takayama, un gioiello nitido e assolutamente imperdibile. Continue reading Giappone #2: Matsumoto, Okuhida Onsen, Takayama e Kanazawa