Capiago Intimiano. Finalmente in quella zona di transizione tra Como e la Brianza Comasca. Quella degli sguardi compassati e quella delle sigarette di contrabbando. La stessa che è troppo vicino per esistere veramente. Compressa tra Milano, la Brianza Lecchese, il varesotto e la Svizzera, diventa enclave nel proprio modo di avere una storia senza conoscerla. È sì un buen retiro, è altrettanto sentore lontano di ville lacustri, ma è soprattutto campagna ondeggiante immersa nel verde. In questo paese, come in tutti gli altri, ci sono delle strade che non portano da nessuna parte. Classica inerzia color senape-cammello e abbandono verso la formazione di un itinerario. In una di queste stradine c’è una villa bianca, senza insegna a riscontrare l’artigianalità del posto. Molto distante dall’immagine che mi ero creato. Il luogo, però, è quello giusto. Sono atteso e mi sento atteso. Non da Frank, ma da sua moglie (un’insegnante elementare consapevole che la vita è fatta di scelte e che la tranquillità non può che essere la faccia di una giornata, di un mese o di un anno…) e dal rapporto con una delle sue figlie. Diretto e anacronistico. Tanto quanto il suo porsi in ascolto, per un mero motivo d’interesse, piuttosto che chiudersi in una comunicazione più facile.
Frank arriva e mi stupisce. Mi aspetto molta più aria, e anche un filo di prosopopea, invece la sua non-violenza ha l’espressione della modernità. Niente imposizione, niente bambini nudi che girano per il cortile, nessun ammennicolo new age, nessuna statua di Krishna, almeno in bella vista, e nessun rapporto basato sul laissez-faireautodeterminativo o sull’assenza di regole. La sua decrescita etica è quella di fare il pane con soli tre ingredienti (farina, acqua e sale) e insegnare la necessità prima del desiderio.
Come Woody Allen nella sua critica al rock (e della manifesta superiorità del jazz), la dipendenza dall’elettricità per Frank diventa, gandhianamente, la dipendenza dell’uomo dalla macchina. Gli strumenti sono fondamentali quando se ne ha possesso. Il suo pane, quello che olisticamente racchiude il segreto del bisogno, ha la costanza delle mani e la visione del fuoco. Nessuna impastatrice, forno a legna (tagliata nei boschi circostanti in uno scambio virtuoso tra consumi ed anidride carbonica) a fuoco diretto, una radio cosparsa di farina, un telefono grigio in linea diretta con l’operatore dedicato alle chiamate extra-urbane (anni ’60 style), sacchi di farina (biologica) Marino e di un Mulino di Solbiate con cui produrre una filiera corta (per ora burattata dal Marino, perchè la forza della farina sfiora il ridicolo… siamo intorno ai 90 W), quattro madri del lievito (frumento, segale, enkir e farro… ma non ne sono sicuro), conservate in frigorifero (fermentazione acetica e acidità spinte), per una panificazione in purezza. Arcaismo e dogmatismo sicuramente, ma un filo di fascino perverso definibile come verità…
Il pane di monococco (enkir) è estremamente compatto, poco glutine, difficile da impastare a macchina, figurarsi a mano, crosta delicata marrone chiaro, alveolature quasi assenti, profumi di antico e di estremo, ha la parvenza della conservabilità, come se fosse uscito da sotto il canovaccio per l’occasione dell’accompagnamento e della resistenza… sentori di sedie impagliate, tavole in legno e lampade a petrolio. È un pane oscuro, poco acido, profondo nel sapore, non immune da difetti, ma tremendamente sincero.
Alternato al pane di frumento Marino (acido, compatto, poco sfogliato, umido, con aromi e sapori profondi di grano…), assaggio la particolarità della sua piccola produzione (ad eccezione del panettone, a suo dire brutto ma buono, limitato al periodo delle feste…), dei biscotti alle nocciole dei Nebrodi: friabili, ma poco fragranti, con le nocciole troppo spezzate per rilasciare un umore… ottimi da accompagnamento…
…questo basta. Tre giorni e mezzo di lavoro, scelta di sostentamento e di libertà. Quando ha deciso di cambiare lavoro (esercitava insieme a ragazzi disabili), si è preso il tempo per sé e per pensare alla cifra della sussistenza. Quattro figli, più una ragazza tunisina in affido (contrasto e sarcasmo della sua quotidianità…), weekend liberi, vacanze in bici scendendo i corsi dei fiumi, pane solo su prenotazione, nessuna vendita diretta, paesani sonnolenti e incapaci di trovarci una diversità, e soprattutto serenità in mezzo alle contraddizioni…
Frank è una di quelle persone che ha scelto (negli anni ’80 dell’edonismo gratificante…) l’origine piuttosto che il futuro… adesso, in questo periodo dove l’ambizione è soffocata e dove l’edonismo non ha più un pacchetto azionario dove rilasciare i sogni d’infinito, ne ricava i frutti con frugalità e lungimiranza… Battuto ma beato…
IL FORNO DEL PANE
VIA AL RISCIO, 21
CAPIAGO INTIMIANO (CO)