All’improvviso un dolce nel deserto… Maurizio Colenghi

Montichiari. Sulla strada che porta verso Mantova. Una statale come tante nella Pianura Padana cantata dai maglioni e dalle nebbie. Uno di quei posti dove la bellezza ha lasciato spazio alla facilità: di trovare lavoro, di raggiungere il posto di lavoro, di avere l’Europa ad un tiro di schioppo e di non avere che la distrazione del congiunto o della congiunta, controllato o controllata dalla portinaia con lo zerbino al posto della lingua.
In un antro diffidente e nascosto c’è la nuova costruzione di Maurizio Colenghi, quel Dolce Reale che, negli ulimi mesi, ha percorso via Mantova di qualche centinaia di metri in direzione sud-est, per trovare una nuova casa. Ha deciso di rimanere, probabilmente i soloni dell’artistico e del gastrofanatismo non lo hanno tampinato. D’altronde non è un Mozart dei fornelli ma è un semplice Euclide della pasticceria.
Cinque e mezza di sera di un sabato come tanti, il bianco degli interni ci incanta e la presenza di sole due persone mi stupisce. Lui e sua moglie. I ”ragazzi” hanno finito di lavorare. Lui si presta ad incartare e a servire… come fossero gesti consueti, spartani, finanche gratificanti… ma c’è qualcosa di nascosto sotto la giacca e dentro quegli occhi che tendono a non chiudersi. Una persuasione fatta di frasi lasciate a mezz’aria, di un’umiltà non coesa con la sua reale grandezza, ma portata bene, quasi con charme, o almeno con la giacca verde brughiera di un personaggio post-sonnellino di Wodehouse.
Si schermisce davanti ai complimenti portati, quasi si chiede che cosa ci faccia lì… a meno di venti chilometri potevo incappare in Iginio Massari… Che cosa posso desiderare da lui che già non mi abbia suggestionato?
Due spremute d’arancia vaniglia ammazzano l’attesa che le convenzioni e le necessità lo liberino. Poi si siede ma non racconta, attende e sorride di gusto. La pasticceria non si è ancora mostrata in tutta la sua bellezza. È linda, nuova, geometrica e deterministica. Manca il barocco, il dolce in quanto dolce, il viaggio della fantasia, l’immagine del lievito che cresce e del bombolone che diventa dente e palato. Ecco cosa manca: un’onirica “leoniana” da ricamarci sopra e da sperare che la domenica sia il giorno dopo il lunedì, dopo il martedì, dopo il mercoledì ecc… Ma questo non è Maurizio Colenghi. Maurizio Colenghi è un’algida estetica del gusto che difficilmente ha un ingrediente fuori posto, in eccesso o in difetto.

E così gli assaggi non spaziano e non ricercano una tradizione. Come quel cocco (ingrediente principe della sua pasticceria… che ha imparato a nascondere e ad esaltare, a mettere fra parentesi e ad impegnare nel retrogusto…) trovato dopo l’acidità del lampone o quel riso soffiato ricoperto di cioccolato a sigillare una monoporzione di semifreddo alla crema vanigliata (adornata da meringhe bruciate, rimaste a temperatura ambiente, che mi fannno strabuzzare e chiedere il motivo… ma Maurizio capisce, mi guarda, sorride e non risponde…) di un’insensata cedevolezza. Ed è proprio lì al termine della notte e del semifreddo che compaiono le mousse, croce e delizia di pasticceri di mezzo mondo, incapacità sublime di vanitosi pâtissier d’oltralpe, che Maurizio non solo non volgarizza, ma sublima in sapori consueti e consistenze per nulla soffici, ma delineate e armoniche al palato.

Il suo viaggio è partito a 13-14 anni nelle estati passate in mediocri pasticcerie di provincia per tirare su qualche soldo. La passione è come se fosse qualcosa di coevo. Scuola alberghiera. Il solito disastro all’italiana. L’insegnamento è basato su chiari e fondanti principi: semi lavorati, grassi idrogenati e mono e digliceridi. Poi c’è chi si salva sulla “solita” nave e chi segue il dogma della margarina, riempiendo gli scaffali di colesterolo, conservanti e sguardi inerziali. Il buon Achille Zoia, davanti all’argomento “scuola alberghiera italiana”, aveva placato la sua ironia con un moto di rabbia misto a frustrazione.
Vent’anni e un figlio. Matrimonio. Pasticceria con un socio. Pasticceria propria. Voglia di perfezionarsi. In Italia non esisteva una facoltà che univa i principi della pasticceria a quelli della scienza. Così decide di partire per il Belgio, senza abbandonare i legami ma raddoppiando gli sforzi. Si laurea all’Università di Scienze dell’arte culinaria di Bruxelles. Vede solo le mura delle aule e poco altro, il resto sono i viaggi, il lavoro e la famiglia. Quello che rimane è un nitore, nel modo di intendere il dolce, che possiede un’estetica nordica, non banalizzata dalla solita “l’innovazione all’interno della tradizione”, ma percepibile in poche frasi, forse una: “i ragazzi (le ragazze ndr) che lavorano con me in laboratorio hanno bisogno di una formazione, innanzitutto. La prima cosa che faccio, quando arrivano, è cercare di educare il palato ai cinque sapori primari. Acido e amaro son gusti da ricercare e non da rifuggere”. Ma Maurizio non è un maestro, tout court, e non ha nemmeno una forma paterna nella descrizione del prossimo. È un’individualista di raffinata sartoria che appena vede sporco e incompetenza inizia a calcolare. I tempi, gli spazi, le altezze e le differenze. E il suo laboratorio ne è la”vittima inconsapevole”: lindo, geometrico e meditato. Nessuna ingerenza, nessuna commistione. Ogni gusto possiede la sua macchina e viceversa. Massima espressione della tecnologia=Massima qualità. E così mi sono stupefatto:

– torta martina: semifreddo ricoperto di cioccolato che racchiude una crema al mascarpone e una allo zabaione (Melanie Laurent e Christa Paffgen nell’emulsione di fascino, bellezza, borse sotto gli occhi, sguardo slavato e straordinaria armonia), due delle cose che più mi avvicinano all’assuefazione, appoggiate su uno strato di pan di spagna al cacao, ricoperto da un’ultima striscia di bavarese (o mousse) al gianduia. Per nulla ridondante, ma estremamente raffinata, anzi quasi sottile al gusto. Determinata nei sapori che non imbrogliano e non s’inzuppano. In una parola straordinaria.
Il resto è tutto all’interno di un’idea di pasticceria che parte da materie prime comuni. Cocco e mandorle, le sue infatuazioni. Si inseguono o si abbandonano alla solitudine, accompagnano un’amarena o stupiscono per una consistenza così bilanciata da far dimenticare l’umore… e pure il sapore… 
Paste frolle che possono aumentare, diminuire, trasformarsi, attraverso gli elementi, in qualcosa di nuovo, di contenitivo o di espressionista. Una torta Matisse, dedicata al pittore presente a Brescia con le sue opere, composta dai soliti ingredienti (tra cui la vaniglia, quasi sempre a corredare, come nel suo consiglio sul risotto…), con le quantità, malamente pubblicate sulla scatola, a sorprendere per succulenza e umidità al posto di un abbozzato e quanto mai solito ingoio secco. Ma non poteva che essere così. 

I sorrisi di Maurizio prendono lo spazio che le parole non occupano. Danno quelle risposte che lui non vuole proprio dare o a cui non crede. Lui segue, nelle sue parole, la deferenza delle sue convinzioni. È discreto, sia quando parla del lievito madre, sia quando si pone molto al di qua dell’invenzione o dell’innovazione… e qui si è bloccata la mia comprensione… che ha smesso di cercare ed ha iniziato a guardare e ad accontentarsi…

PASTICCERIA DOLCE REALE
VIA MANTOVA, 158
MONTICHIARI (BS)

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