L’alpeggio come forma di apertura al mondo… Graziano Lozzer

Arrivare in Valfloriana può essere semplice o può essere complesso, dipende dallo spirito, dal meteo e dall’idea che uno ha di ricreazione. Sei frazioni disperse tra gli alberi, i boschi, le chiese e quelle due, forse tre, botteghe che fanno capolino al di sopra del verde.  Ad un certo punto, un cartello indica “strada senza uscita” (ma è un bluff… la via c’è , è  asfaltata e porta fino a Malga Sass…), una diramazione a destra, verso un piccolo torrente (dove le trote salmonate possono vivere incontaminate oltre i quattro anni…) e una verso sinistra, che conduce all’interno dell’Agritur Fior di Bosco della famiglia Lozzer. Annuso, non cercando nulla in particolare, guardo con più attenzione, alla ricerca della banalità del Trentino (abeti, fiori, mucche e ruscelli) e la colgo, nella sua interezza, con un unico movimento degli occhi. Apro la porta e mi accorgo della primavera alle mie spalle…
Due telefonate avevano già mostrato tutto. Dall’altra parte della stretta di mano, c’è una persona chiara e semplice, con le parole mirate, il sorriso perlato oltre le difficoltà e la stanchezza, e un’ospitalità che non è più del mio mondo. Con tutti. Alle otto di mattina e all’una di notte, dopo aver servito sessanta coperti e in mezzo alle sue mucche. Graziano illude che quella terra, fatta di silenzi, scalatori e musi lunghi e rarefatti, si possa trasformare in un suq colorato in continua trattativa. E tutto questo l’ha imparato… in alpeggio…
A 12 anni e mezzo era il più giovane malgaro d’Italia. La sua famiglia aveva iniziato ad andare in quota ed era stata solleticata dal vezzo dell’ospitalità. Le loro vacche di razza grigio alpina, ora tutelate da un presidio Slow Food e recuperate alla vita (in Trentino ci sono 600-700 capi e in Alto Adige circa 7000, ancorchè il rischio dell’estinzione sia stato serio), sono coriacee, adattabili, a triplice attitudine e resistenti ai diversi climi e alle diverse morfologie del paesaggio, non concedono più di 40 quintali (a fronte dei 70-90 di frisona e bruna alpina), sono docili ma soprattutto sono delle produttrici (se controllate nell’alimentazione) di un latte intero di straordinaria bontà (che da scremare, per la più classica delle produzioni alpine, il burro di malga da affioramento, è addirittura sprecato). E Graziano lo sa bene…
Sono longeve almeno quanto la storia del suo padrone che se ne innamorò di “una” gracile in un viaggio con suo padre attraverso il Tirolo e che lo convinse a portarla via con loro in treno. Lola. La sua storia, la sua esistenza e la sua morte dopo 22 anni, sono la strada percorsa da questo artigiano di impareggiabile comunicatività. Ha dovuto lottare contro la burocrazia che ottenebrava la possibilità di un caseificio al di fuori dei consorzi e delle latterie sociali, ha presenziato a mostre, concorsi e mercati per portar fuori la bontà dal concetto un po’ lasco, un po’ sbiadito di malga alpina (puzzone, vezzena, spressa eccetera non hanno più una faccia, una storia, un artigiano, ma solo una forma e moltissime boutique del gusto di talebani salivanti e glorificanti un nome e un passato) e da quello, sempre pungente ed imperante, di latte crudo.
Graziano ha creato, intorno alle sue trentacinque vacche grigie, il suo mondo, la sua famiglia e le sue fortune. “La moglie” Isabella in cucina e il figlio a dare una mano nella creazione e nella percezione del “sentirsi a casa”, qualche operaio, un paio di “tuttofare” e quella vista sui boschi che lascia incantati a qualunque latituine e in qualunque condizione sociale si arrivi fin lì. Dal ricco tedesco giunto su una Triumph, con il sigaro in bocca, l’accento del professor Birkemaier, di fantozziana memoria, e l’eloquio scandito sul “io voglio stare bene” (derivazione inflessibile di un articolo scritto, su una gastronomie zeitung, da un infallibile giornalista teutonico), all’avvinazzato delle dieci di mattina con la voce stentorea e monocorde.
L’ospitalità è quella maniera creata a duemiladuecento metri nelle estati dove stelle e vacche, merda e rocce spandevano la propria necessità di diventare altro, qualcosa d’altro rispetto alla tradizione delle gote arrossate dal freddo e dalla timidezza, la parola dentro il maglione rosso infeltrito, i pantaloni di fustagno e un italiano stentato e lanciato poco oltre i baffi lucidati dal sole… Ed Ecco Graziano Lozzer, un produttore di carni e formaggi unici e uno straordinario anfitrione dal volto idealizzato sotto il concetto di ospitalità.

Dalla parte delle carni (siamo sul vitellone, ma sono bestie che in generale invecchiano bene), macellate a Cavalese, senza nessuno stress da trasporto, pur non essendo un grande amante del filetto, ne sottolineo (prescindendo da cotture, stilemi gastronomici e fantasiose presentazioni…) la grandissima sapidità e il mantenimento dei succhi (grazie alla tipologia di alimentazione, biologica sia nell’essenza che nella certificazione) sigillati all’interno della polpa. 

  – Speck crudo e speck cotto (questo infornato direttamente dalla moglie), affumicati in casa, sono l’embelma dell’accoglienza: ad onta di conoscenze praticate nei viaggi, nei ristoranti, nelle gastronomie e nelle stalle, questo speck è meno forte, più dolce e conviviale… apre…
… mentre, quello che lui definisce un carpaccio (con vari premi annessi) e io definisco bresaola, chiude… Lui aggiunge olio e scaglie di fossa ma è come se fossero fronzoli non necessari… il sapore non si nasconde, prevale e non ha bisogno di altro per essere esaltato… 

  Dalla parte dei formaggi, partiamo dal presidiato nostrale d’alpeggio (anche nella versione invernale): occhiature piccole, regolari e numerose, colore tra la crema e la paglia, sapore profondo di latte, di erba e di fieno, non ha un profondo lascito odoroso. Nella sua semplicità è perfetto, fin assuefacente. 
Si presta nella sua purezza a lunghe o lunghissime stagionature. Lui ne possiede delle forme di dieci anni e decide di aprirne una di quattro: piccolo pezzetto o scaglia e nulla più… ha un intensità piccante al palato e un retrogusto di nocciola di straordinario impatto emotivo… che formaggio!

  – Casat della Valfloriana: nella sua semplicità di caciotta non mi provoca turbamenti e nemmeno affinato con erba cipollina e peperoncino. Stagionato nel fieno trova un connubio interessante, non asciugandosi particolarmente e rilasciando sentori di erba bagnata, quasi terrosa. Infossato nelle fosse di Mondaino (Rimini) è un latteria che non raggiunge l’intensità di un pecorino ma nemmeno la sua piccantezza. Rimane morbido e invecchia sicuramente meglio. Ha mille modi d’uso ed è difficile da trovare fuori luogo.

  – Poi ci sono la ricotta (vacche grigie, latte crudo… non serve molto altro) e la zighera (una crema di formaggio perfetta in fonduta e in abbinamento ai piatti di carne…) che chiudono la miscellanea delle sue creazioni… 

infine rimane solo la voce di Graziano che si fa umida e antica che si perde nei racconti (come quello della creazione del caseificio, tutto in legno tagliato nei giorni invernali di luna calante, quelli in cui la linfa è ferma per non creare problemi di muffe e umidità) della sua vita e nella valorizzazione delle peculiarità di gente che nasce contadina e muore contadina. Nella semplicità e nella poesia…

AGRITUR FIOR DI BOSCO
LOC. COMUNI
VALFLORIANA (TN)

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