Montebruno è un luogo plumbeo, buio, con poche strade, con il fascino sommerso dalle poche chiacchiere e dalle poche propaggini. Il Trebbia scandisce i tempi e i rumori, gli alberi sono caduchi, non tinteggiano più, rimangono profondi in una valle che si è tolta il turismo di dosso a suon di curve e tetti rossi. Gli archi dei ponti definiscono quella che Hemingway, privato del sarcasmo ribollito, aveva definito “la valle più bella del mondo”, forse per la sua autenticità originaria che non la porta a confondersi con il già visto. Quello che passa sotto lo sguardo poco attento è l’incommensurabile distanza con il conosciuto, i luoghi tipici sono diroccati, le case di villeggiatura nascoste, gli agriturismi sono bradi, la natura estremamente selvaggia. Un posto anti-comunicativo. Acciottolati, sassi e un dialetto scomodo, distante, in mezzo a quella statale preda di camion e motociclisti. Qui, sulla strada principale, un luogo fuori dal tempo attende il viandante depredato dalle richieste.
Antico Forno a Legna da Carlo e la leggenda si ravviva un po’. Un luogo lontano dai preconcetti e lontano dalla routine. Un posto sulla strada che emana calore. L’immagine è sconcertantemente banale, ma è una di quelle epifanie che del ristoro si portan dietro tutte le derivazioni. Carlo con la pala in mano e Ida, sua moglie dietro al banco, a dare quell’estetica assolutamente inaspettata, con i prodotti degli altri al posto giusto e con la sublimazione del forno alimentato a legna. Perché la contemporaneità deve passare quantomeno dal mediale. Così niente ceppi in camera e prodotti assolutamente strutturati.
Si scende una scala e le fragranze si confondono con il fine. Soffitti bassi, due donne che impacchettano, un paio di impastatrici, una sfogliatrice, una macchina per fare i canestrelli e i pandolci pronti da infornare sulle spianate. Mattoni refrattari, forno antico e una cella di lievitazione naturalmente formatasi accanto al forno, dove le temperature le decide il caso e dove i prodotti sono costretti ad abituarsi, a mettersi il cappello o a togliersi lo scialle. Et voilà la sua madre in attesa del rinfresco. Una lavorazione al di là dei tecnicismi, per panettoni bassi (il classico piemontese), croissant e un pandoro sfogliato, intraprendenza fuori selciato che si porta dietro l’aplomb di un’epoca e di una fatica.
Ma quel luogo è un luogo di neve e di fuliggine, di lavori diversi, intrapresi e artigianali. Con quell’unicità che nella rivoluzione del biscotto ha portato dentro tutto. In silenzio. Bacio di dama e canestrello. Perfetti entrambi. l canestrelli sono di una rarità quasi inaccessibile: sono buoni, con tutto quello che comporta in termini di friabilità, pulizia, ingredientistica, chiusura del palato, piacevolezza, estetica e funzione sociale. Il dopo pranzo è servito da farine tecniche ma assolutamente arrendevoli, nella distinzione di quella persistenza burrosa con cui tutto si accorda. Rarefazione di un acme che è difficilissimo da ripetere. Le due versioni dei pandolci, la classica lievitata (alta) che è la più antica ed è la meno mangiata e quella più contemporanea a base frolla (bassa), sono ricche, con canditi, pinoli e aromatiche perentorie, hanno quell’afflato natalizio che li toglie dalle discussioni per rilasciarli nella convivialità ma soprattutto nell’estetica di un laboratorio che riempie gli occhi. Il panettone è estremamente panificatorio, un filo chiuso e umido, particolarmente serbevole e senza eccessi aromatici. Manco il pane a lievito madre ma trovo i croissant a conservazione senza conservanti che perdono necessariamente in friabilità guadagnando in molecole d’abbandono.
Ida è la vera necessità di questo posto che, un po’ per gelosia, un po’ per tradizione, un po’ per genealogia, aveva deciso di rimanere nascosto. Lei è arrivata da un bar-trattoria di un paese vicino, ha sposato Carlo, portando comunicazione. La famiglia di Carlo, lo zio Oreste che ravviva ancora il fuoco, la zia e il padre mantengono vivo il dileguarsi del bianco e nero nei cassetti pieni di fotografie di canottiere, forni a legna e capelli rockabilly, ma soprattutto la storia di trasmissione di una tradizione che, in tempi di smarrimento, sospetti e innovazione a tutti i costi, diventa il punto centrale dell’epopea di una famiglia che ha deciso di rimanere lì, a mezz’aria. Dopo una corte di due anni, Roberto Panizza, droghiere genovese con pochi scrupoli verso i segreti, e ripetute visite al forno, è riuscito a portare i canestrelli in città. Segnando quel punto di non ritorno da assaggio e telefonata. Aperte le cataratte della voluttà, i loro prodotti sono stati necessariamente scoperti e Ida ne è stata la più fiera assertrice, in quel misto tra estetica e bramosia che completa la bottega di protezione e di presentazione. Carlo può lavorare sotto traccia e la cortesia ritorna ad essere salvifica. Perché un’attività artigianale è femminea e femminea deve restare. Non può prescindere dalla mostrazione e dalla condanna al lavoro. Così la crisi è un edulcorato argomento di dialogo che non tocca quei ceppi da sveglie notturne e cuscini appena sfiorati…
ANTICO FORNO A LEGNA DA CARLO
VIA BARBIERI 39
MONTEBRUNO (GE)