Il droghiere che fa il pesto… Roberto Panizza

panizza

Genova è una città offesa, che ha subito l’incuria di una posizione che non è mai stata trasformata in una situazione. È una città portuale, montana, collinare, pretenziosa e sentenziosa. Ha l’anima del dialetto ed è nascosta dietro l’esigenza di mostrarsi. Non puoi non accorgertene, è troppa in tutti i sensi, nonostante l’incuria, le buche, il sovrappopolamento, i grattacieli più bassi d’Italia, l’effetto domino delle case popolari, l’antitetico sguardo sempre cantato, già conosciuto, già sentito. È una città talmente scritta da non rivendicare più nulla. Il fascino delle prostitute, dei caruggi, delle tipicità, delle case diroccate e della puzza di pesce non ha nulla di invidiabile fuori da qui. Ma questo è un luogo fuori dalla discussione, fuori dall’opinione e fuori dal luogo. Alzare lo sguardo è sempre un’architettura sovrapposta, sporca, atemporale. Abbaini napoleonici, finestre marinare, colori pastello, vicoli senza uscita, piazze disarmanti. Ma gli sguardi sono intramontabili e lì la dedica non è tardata ad arrivare. Senza massimizzare il cemento, i morti di Staglieno se la spassano meglio dei vivi della Val Bisagno. E Genova attutisce tutti i contrasti con la tranquillità del lungo corso.

Lì in mezzo ci sono religiosità laiche che si perdono nella notte dei tempi e la cucina ha quell’ascendenza che riporta tutto indietro minimizzando l’origine. Il pesto è l’apice dell’assenza di controllo e di percezione. La nebulosità delle radici riporta a qualcosa di medievale, un’agliata a cui veniva aggiunto basilico e olio d’oliva, come retaggi territoriali per una delle prime salse unte che si ricordi. Poi sono arrivati i monaci, i marinai e i Fratelli Pagano che a metà Ottocento hanno tradotto un fare comune. Il pesto diventava tradizione e tradimento. Cultura scritta e cultura orale in una terra di viaggiatori agri, senza complimenti e con il sarcasmo al posto della formalità. Qui si è inserita la storia di Roberto Panizza, di suo fratello Sergio e dei loro genitori.

La drogheria è il punto di vista vintage sulla vendita al dettaglio contemporanea. I Panizza sono arrivati dalla bassa mantovana, han cominciato con l’agricoltura, si sono messi a vendere conserve, spezie e dolci, hanno introdotto l’estetica del prodotto ligure e quella del cesto regalo, hanno cominciato a produrre pesto e hanno rilevato un ristorante. Tutto nell’arco di un pezzo di Genova dove cinque botteghe hanno espletato ed espletano ognuna la propria funzione accidentale. Le caramelle, che sono ancora da scegliere e da pesare all’etto con quell’estetica della vetrina e del cassetto che si dimentica delle origini e del gastro-fanatismo, l’olio, le composte, il caviale e la modernità del lusso, il pesto e la ricerca della radice della materia prima che la contemporaneità ha imposto come unico punto di vista. Così, al parossismo della sua vocazione da droghiere, quando il pesto aveva ancora qualche incertezza di nome e qualche confezione casuale in polistirolo, Roberto ha deciso di aprire il suo laboratorio dove portare i pinoli, l’aglio di Vessalico, il Parmigiano Reggiano 24 mesi, il fiore Sardo, l’olio di Taggiasca e il basilico di Celle Ligure. Il pesto non aveva una serra e nemmeno un ristorante, però aveva un’unicità. Ora si doveva trovare un’origine che fosse agricola o che fosse culinaria. In mezzo c’era l’ostilità dei commercianti. Bisognava trasformarsi in artigiani e corroborare il prodotto attraverso la somministrazione di un ristorante. Così è nato il suo pesto da invasettare, il pesto da taverna quotidiana e il pesto al mortaio (tre/quattro volte al mese), ora anche da esportazione (“Il pesto che non esiste”).

Ecco, in assenza dello studio del basilico, delle serre riscaldate, della collina di Pra, della vocazione rurale, della rapsodia del prodotto e dei cicli del tempo, Sergio e Roberto continuano a rimarcare l’importanza di tutti gli ingredienti. Il basilico va scelto, l’aglio va scelto, il formaggio va scelto. Il dono della coltura non è il dono della cultura. Almeno non qui. Così, il loro pesto è un luogo d’elezione veramente intelligente. Perché ha una definizione, dei sapori, degli ingredienti e una consistenza estremamente connotati. Esce fuori l’affumicato del Fiore Sardo, la freschezza dell’aglio, la resina del Pinolo, la sapidità del Parmigiano, la “polifenolicità” dell’olio e il pungente del basilico. Esce tutto, senza arrendevolezza a sapori blandi. Finalmente!

Il ristorante dei Panizza è un tuffo nel tempo storico, uno storicismo genovese che è destinato ad un fine. Il tocco (sugo di carne) cotto diverse ore, i ravioli con ripieno di Cabannina che è anche battuta al coltello, i fritti misti, la torta pasqualina, la prescinseua, rimangono economici nella garanzia, senza eccedenze. Togliendo e conservando, in una sintesi perfetta di imprenditorialità e gusto. I Panizza sono mercanti diventati artigiani e ristoratori. L’anima è nel dialogo. In quello che Roberto distribuisce con la gentilezza necessaria a non andare mai oltre nell’empatia, perché il posto nel mondo è quello che rimane, senza confusioni… e la morale è nella condivisione… quella del campionato del mondo del pesto (promulgato da Roberto qualche anno fa) in cui arriva gente da tutto il mondo… ma soprattutto è nell’estetica… quella del grande mortaio di marmo trovato in un monastero benedettino che rimane lì senza dissuasioni e senza costrizioni…. come se parlasse molto di più di qualunque discussione… “Io sono”…

 

PESTO ROSSI

VIA GALATA 30/R

GENOVA

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