Apprendisti mugnai e altre storie… Mulino Marino (Fulvio e famiglia)

Cossano Belbo. Il penultimo paese della provincia di Cuneo, guardando verso Canelli e Nizza Monferrato. In quel tratto di Alta Langa che si è staccato dalla pianura ed è entrato nella fascinazione. I noccioleti, le vigne del moscato e le curve decidono tempi, modi, somministrazioni e umori. Nella mercurialità di un cambio d’abito, si è trasportati in quelle colline che non hanno subito la moda del turismo e il turismo alla moda. Dove le aziende sono ancora tali, dove l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato vengono ancora sentiti come il desiderio di produrre senza trattare la somiglianza, dove la creatività e l’innovazione si sono sì trasformate nell’unicità di un prodotto, ma con la rintracciabilità di alcuni volti, a volte di uno solo. Qui la definizione cittadina di vicinato si sposta dagli isolati e dai quartieri per approdare alle colline. “Quello che fa il formaggio due colline più sotto…”, con concordanti assensi in stretto dialetto veicolare.

Al di là di una delle solite tante curve, delle solite strade chiuse e della solita vecchina con indicazioni sulle infinite possibilità di raggiungimento del luogo desiderato, arriviamo al Mulino Marino, uno di quei posti che non avrei mai cercato se non mi avesse trovato il caso. Perchè sono testardo, intransigente, un filo dogmatico, un po’ monocorde e in abiti talebani.

Nel mio sospetto e nella ricerca dell’ombra, mi porto casa quel sì che Molly Bloom non può fare a meno di trasformare in un paio di mutande. Un sorriso che, al di là di definizioni sterili su sincerità e simpatia, trancia il mio spirito d’inibizione. Fino alla fine della giornata.

Fulvio mi prega di arrivare a macine in funzione, in modo da accertarmi di realtà e trasparenza. Due palmenti in movimento (uno sul mais, nelle miscele di pignoletto, ottofile e marano, e uno sul Senatore Cappelli, che arriva dalla Basilicata, unico grano duro macinato in azienda…), uno spento, ricavati da pietre francesi naturali, martellate a mano, periodicamente, per ottenere la ruvidità desiderata al centro e la corretta levigatura verso l’esterno, che girano lente senza surriscaldare il prodotto e lasciando il germe intatto. Sapori, odori, tradizione, passaggi attraverso il buratto (o setaccio), il tutto a metà strada tra la concretezza delle sveglie alle cinque di mattina, dei timpani triturati, delle intolleranze alle polveri e di una manualità fredda, quasi spietata, senza la fascinazione del plauso gustativo finale (baldanzoso o pedestre, il produttore ha sempre bisogno di dare sfogo alla propria vanità…) e la poesia, quella che non può fare a meno di raggelarti la coscienza, riportandoti alla nostalgia di qualcosa che non hai mai avuto.

Le troppe parole, le troppe persone presenti hanno infranto quel sogno di giustizia, di mattine solitarie e di scatole buie svegliate dai neon che si accendono ad uno ad uno, dando vita ai motori che, avviandosi, si portano dietro la storia delle fabbriche, delle macchine a vapore e di quegli automi che prima di assomigliarci ci hanno stupito. Così, davanti ai mulini a cilindri (inizio ‘900, verde persiano, scritte in corsivo e climax di macinazione…), quelli che macinano la farina 0 e quella 00 (nata con la nascita del cilindro e mi verrebbe da dire delle intolleranze), recupero l’anticamera buia del silenzio e inizio a salire le scale da solo.

Fulvio, Giovanni e Nicholas (esimi panificatori…), chiacchierano, lasciandomi in disparte dalle domande. Lì, forse, capisco la voracità di Fulvio (peccato che suo fratello Fausto fosse in Gran Bretagna…), il sorriso pudico di Ferdinando, il padre, la ritrosia di Flavio, lo zio, e la loquacità di Renzo Sobrino (il deuteragonista a 40 km di distanza): il riconoscimento di un lavoro che non è mappato, che non esiste più, né nel bene né nel male. La farina è una cifra nell’etichetta degli ingredienti. Nessuna difesa, nessuna definizione.

Fulvio s’infervora…

…soprattutto nell’integrale (fibre, proteine, vitamine, minerali, enzimi che, prima del burattamento, nella molitura a pietra, si conservano intatti…), il biologico va preteso: il tegumento protettivo, esportato normalmente durante la raffinazione, è il più esposto alle sostanze chimiche usate in agricoltura. La pericolosità su una farina integrale è la sottovalutazione della stessa. Pasticceri, panificatori medi, imbonitori, chef e dementi sparsi prendono la farina come un assioma da cui partire per una costruzione, per una pièce artistica, per una torta o per una pastificazione color merda. Niente discussioni e nessuna difesa.

La giovialità di Fulvio diventa, per un attimo, noir, quasi espressionista. Le ombre si allungano e il grigio inizia a farla da padrone… ma la selezionatrice ottica Buhler ci tira fuori dalla paura del Golem…

…tecnologia nella ricerca infinitesimale del chicco non a posto, con tutto quello che ne consegue in termini di percentuali, salute, precisione e noiosi semi infestanti.

… e dopo avermi, in un recente passato, dirozzato sull’Enkir, che per me era una mera operazione di marketing strategico (con il nome sostituito a quello più comune di monococco, le magliette e i pizzaioli rubizzi…) e che lui invece mi ha ridefinito come una specie all’interno di un genere, anzi, come una selezione di una specie all’interno di un genere. Coltivato in Langa, come la gran parte dei cereali, da una cooperativa di contadini biologici e aggraziati, è un grano vestito, padre di tutti i cereali. L’antichità è un vezzo ma anche l’unica spiegazione. Resistente, adattabile, proteico, antiossidante, con un glutine non tossico. Il paradiso della menzogna e l’anticamera della verità. La mia persuasione è stata filtrata da una birra (prodotta da Leonardo Di Vincenzo, speziata ma incomprensibile…) e da varie misture: pizze, pani, gallette (prodotto dietetico senza idiozia…), sfoglie, paste. Ottime e metabolizzabili. Per un pubblico più edulcorato: eccellenti (le mani degli impastatori, da Mauro Musso a Marco Locatelli, sono fuori di dubbio…) e salutistiche.

Il resto, ed è tanto, è composto da una straordinaria segale altoatesina, da un farro bianco e dal farro classico (veramente ottimo il chicco in zuppetta di mare…), dal Senatore Cappelli, dai grani di forza (di solito i Bologna vanno a sostituire la manitoba…), dal kamut (che soddisfa Fulvio per qualità organolettiche e certosini controlli, con buona pace dei grani turgidi italiani: Faraone, Etrusco, Perciasacchi, Saragolla…) e dalle varie melighe langarole (eccezionale polenta blend di frequenze, possibilità e varietà…).

Le farine sono vittime di ignoranza e persuasioni, quelle che mantengono la mano sulla pistola alla parola cultura, quelle che credono nell’adorazione degli aromi e delle sovrastrutture. Le stesse che definiscono, creando paure oltre i limiti e le possibilità: quelle dei pasticceri di buttare via l’impasto dei lievitati, fatti con farine poco stabili, vezzose e assolutamente schizofreniche, quelle dei pizzaioli di non avere il nome Pizza sui sacchi sfarinati, aperti, laschi e assolutamente imbanditi di glutine, derivati del latte, conservanti, malto e altri additivi, fatti con pietre a prova di ozono, e quelle dei panificatori, retaggio di un sottosviluppo culturale dedito alla puzza e alla “razza”. Così gente come i Marino, i Sobrino e i Drago costano troppo, “hanno i topi negli ingranaggi” e poca stabilità. La gente si perde in mezzo alle fandonie e rimangono i fanatici, i blogger e gli usurpatori della cultura (pizzaioli, panificatori e pasticceri dallo scontrino facile…).

Fulvio se ne preoccupa il giusto, continua a sorridere e a lasciare per terra le mie ubbie di medio dietrologo di città… La comunicazione è l’unica via di salvezza, economica e culturale, per tutti, nessuno escluso. Apocalisse, totalitarismo e teocrazia. Ovunque, a qualunque livello. Fulvio la interpreta, ci gira intorno, ha degli obiettivi e una grazia… altro?

 

MULINO MARINO

VIA CADUTI PER LA PATRIA 41

COSSANO BELBO (CN)

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *