Autarchia siciliana… Giovanni Parisi

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Scicli. Territorio di Scicli. Muretti a secco vista mare, strade senza indicazioni stradali, ulivi e carrubi. Tra Donnalucata e Sampieri il mare è una questione di stime. Qui, Montalbano ha preso le case diroccate e le ha trasformate in pentole piene d’oro. In meno di vent’anni. La fornace Penna, o Pisciuottu per gli abitanti della zona, è stata la volontà di potenza del Barone Penna che, ad inizio Novecento, ha cominciato a produrre laterizi a bordo del mare. Bruciata vent’anni dopo, è rimasta lì, archeologia industriale di potentati folli che avrebbero potuto costruire anche sopra le onde. Fascino codardo, tempio del lavoro e ciminiera molto oltre qualsiasi decadimento. Questo è il nostro tempo e il nostro abbandono. Lasciare Sampieri, il suo mare e i suoi forni presi dalla vegetazione, è un’imposizione. Giovanni Parisi è l’obiettivo di un territorio che comincia a mostrare le prime serre e le prime contrade senza definizione se non data da qualche curva.

L’estetica dei cartelli stradali e delle brochure è ancora destinazione d’uso di produttori fighetti di aromi e di aziende da botta in testa dietro l’angolo… l’agricoltura, qui, non è mai stata una patina e nemmeno una cosa per forestieri. Chi compra, fa lavorare e guarda con il panama, chi è nato qui, zappa e trattore li ha alternati al biberon e l’illusione del cibo lento, contemplato dal turista e ridiscusso nel prezzo, è arrivata da pochi anni, da quando il Val di Noto ha messo in luce il suo barocco tardivo, fortuna di un terremoto che ha reso tutto più giovane.

Curve che non saprei mai ri-raggiungere, una contrada snobbata dal navigatore e l’ingresso normale di una casa normale. Giovanni, suo padre e sua madre producono tutto ciò che è possibile produrre per continuare a procrastinare i problemi. Ettore Bocchia, chef fuori programma ed estremizzato ormai dal disinteresse verso un molecolare che, in Italia, è sempre stato più gossip che altro, ha conosciuto i prodotti Parisi e li ha dissimulati sotto l’esperimento, mentre mangiava salsa di datterini e astrattu steso al sole.

Fagiolo cosaruciaru, datterini, ciliegini, carrube, mandorle, olio, astrattu, conserve, miele, pane, sesamo, agrumi e altri alberi da frutta per uso domestico, carretti siciliani, lavorazione del legno, marmellate, biscotti di mandorla, succo di limone e qualsiasi cosa si possa produrre all’interno di mura intimistiche che diventano terreni coltivati o trasformatori colti. Giovanni è un contadino che viene da una famiglia di contadini, con un viso che si è tolto di dosso l’indigenza e la necessità per ammantarsi di desiderio.

L’economia è l’ultimo dei rendiconto, prima ci sono la soddisfazione e l’appagamento altrui. La sua agricoltura è una forma di gratuità, non ha dei ritorni ma solo dei principi. Il margine si fa con il pomodoro. Dal primo gennaio al trenta dicembre, le produzioni hanno il tempo della semina, quello del raccolto e, solo in una breve finestra estiva, quello della trasformazione in conserva (fatta dalla famiglia Lucifora di Chiaramonte Gulfi) e dell’astrattu concentrato al sole, un retaggio rimasto ormai in poche famiglie e in cultori dell’aridità del pomodoro.

La fama è arrivata con il fagiolo cosaruciaru (cosa dolce) e con il suo meraviglioso occhio rosa in mezzo ad un contorno bianco perlato. Il tempo dei terreni alluvionali e delle vendite in città, all’interno di bottiglie di plastica, è stato messo alle spalle da Slow Food. Ora i fagioli si selezionano, le impurità e i fagioli cromaticamente fuori luogo vengono messi da parte. I prezzi sono lievitati e l’interesse gastronomico è andato di pari passo con la vendita. Un fagiolo dolcissimo, che ha bisogno di pochissima acqua. Cottura veloce, buccia morbida, due cicli produttivi. Dalle zuppe alle paste, è un fagiolo estremamente adattabile. Giovanni ha creato un paté con l’aggiunta di pomodoro e di qualche aroma. Qui, ancora, la tradizione antica e le facce rugose hanno preso in mano un’eccellenza, provando a traghettarla da qualche parte al di là del disinteresse.

Così, Giovanni carica le sue carrube sui camion, dipinge carretti siciliani, prende in prestito il miele di timo ibleo e delle stesse carrube dal lavoro di suo padre con l’ape nera e con la ligustica, guarda la leggerezza di sua madre, donna di un tempo con i tempi di un tempo, che non deborda mai e che non conosce il rifiuto. Così bisogna farsi viziare, perché le famiglie siciliane contadine non hanno avuto accesso al compromesso. Qui, è tutto meraviglioso, al di là della bontà del prodotto, delle coltivazioni in serra e della dolcezza senza riscontro reale della salsa di datterino. È una questione di volti, di ritualità, d’istintiva capacità di comunicazione e di quell’umiltà che ancora riconosce la deferenza della cultura. Ad ognuno le proprie possibilità e ciascuno secondo i propri privilegi. Giovanni è una persona talmente legata alla cortesia che le sue frasi, quei piccoli momenti senza valore al di là degli assaggi e della conoscenza, sono già letteratura. Un mondo spiccio di tempi dilatati. Ecco tutto. Una famiglia che va conosciuta… nessun barocco e nessun Montalbano… i muretti a secco sono ancora nascondimenti e disvelamenti… Non è ANCORA tutto manifesto… Fortunatamente…

 

AZIENDA AGRICOLA GIOVANNI PARISI

CONTRADA CARCARAZZO

SCICLI (RG)

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