Beaufort d’alpeggio e la resistenza di un principio… Gaël Machet

Le Villard du Planay. Savoia. Superati gli ultimi prefabbricati che già guardano la montagna, in quelle valli alpine predate dalla necessità di divertimento, la neve è comunque efficace per una piacevolezza di sistema. Macchine compassate che s’ingrandiscono, mancando i colori pastello e smunti della decadenza paludiera, rimandano ad una Francia più vicina e meno esotica. La finitudine del legno, contrapposizione di colori che dovrebbe sempre lasciare senza parole, diventa una fiaba imposta da una conclusione di rocce e vette. Non si riesce ad andare oltre una semplice bellezza, fatta di prodotti tipici, di linee geometriche che demarcano il sentito dire dall’offesa e di rotonde fiorite che chiudono il circolo novecentesco dei vip in elicottero. Questi dati sul mondo si trovano al di qua e al di là delle alpi, in località turistiche dove sciatori, grolle e pelli abbronzate si continuano ad alternarnare nella rappresentazione della selezione naturale.

Gaël Machet, con tutto questo, c’entra poco, praticamente nulla. È uno statuario transalpino che non viene da una famiglia agricola. La sua è stata una scelta, e nel formaggio di vacca non è così scontato trovarne in giro, un amore incondizionato per l’alta montagna d’estate che lo ha portato presto in alpeggio a seguito dei vecchi malgari. Così ha imparato la professione, a scegliere le vacche giuste, a fare il formaggio come si è sempre fatto e a creare una distanza tra sé e la maggior parte dei Beaufort caseificati da queste parti.

“Per fare una buona Toma della Savoia ci vogliono tre giorni, per fare un buon Beaufort ci vogliono almeno quattro estati in alpeggio”

Ecco la rappresentazione della decadenza, quella che piace a me, quella che mette al centro la fatica, l’umore, il tempo, la necessità, il desiderio, il traguardo come percorso e la qualità come una sfida quotidiana. Le forme variano dai 20 ai 70 kili, l’alpage du Ritord è nel versante di Pralognan, d’inverno le vacche (di razza Tarine) vanno in Provenza con un altro allevatore e lui rimane con le sue stanze di affinamento a Le Villard. I Beaufort stagionano anche due anni, nessun fermento ma solo sieroinnesto, una sola mungitura, al naso arriva il burro, la crosta è lavata con rispetto per gli olfatti, al taglio non c’è un’increspatura che sia una, in bocca si manteca, si scioglie e rimane un profondo retrogusto di noce. Un formaggio straordinario in mezzo ad altri fioriti, come la Toma (che stagiona al buio in mezzo alle sue muffe gialle su assi di legno), e meno riusciti come quelli dei vicini di casa e dei vicini di valle.

Gaël ha una sapienza moderna che nella qualità vede ancora l’ultima delle tradizioni, non abbandona le radici perché probabilmente non le ha mai avute, così le rughe possono tornare ad impacchettarsi e un formaggio del genere ad emergere per il suo senso di giusizia. “Il Beufort può essere straordinario o al massimo buono, l’Abondance buono e al massimo cattivo, il Comté è tutto uguale, cambiano solo i mesi di stagionatura”. Il suo pensiero sui grandi formaggi delle alpi francesi è una stilettata verso la standardizzazione di una dolcezza svizzera-transalpina che ha portato con sé tutte le differenze. Quoto con rispetto… mi sono sentito compreso…

C’è fermento anche al di là delle Alpi…

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