Biodiversità e cereali antichi… Claudio Grossi

Santa Maria del Piano. Tra Bannone e Lesignano de’ Bagni. Superati fiume e stradine, tornanti sempre più stretti, boschi di castagni, ville rapinate, perfette scene del crimine seriale ed eremi di solitari pensatori di pianura, quando le foglie sono tutte cadute e i colori hanno iniziato a spaziare dal giallo autunno al rosso autunno, togliendo luce e lasciando solo il riverbero, i paesi dei salumi, proditoriamente, attendono il viaggiatore proprio dietro l’angolo. Felino e Langhirano sono un florilegio di capannoni e salumifici industriali con ragazze multilingue sempre pronte all’accoglienza. Perché in queste terre, umidità e stagionatura sono l’ordine del giorno e anche la leggenda della sera. Che poi non ci siano allevamenti di suini, poco importa. Il prosciutto di Parma è un buon riempitivo di botteghe e conversazioni, soprattutto all’estero. Uno di quei vanti italici di cui non possiamo fare a meno.

Supero e vado oltre. Non sono lì per i maiali. Sono alla ricerca di un posto fuori rotta e fuori navigatore. Una di quelle fattorie che, a rigor di vanto e a diritto di proseliti, dovrebbero essere antologizzate dai nostri Diderot.

Azienda Agricola di Claudio Grossi. Lui e sua sorella. Cascina diroccata, fienile, trattore e tanti campi trebbiati. Novembre. Il grosso del lavoro è finito. Ora rimangono i trasformatori e la promozione. Claudio è un personaggio del passato. Uno di quei folli visionari senza PRE-GIUDIZIO. Nessuna supposizione poteva andare così lontano dal bersaglio. Nemmeno dopo una telefonata. Un uomo tutto nervi, asciutto, nel fisico e nel pensiero. Le sue parole sono suggestive. Sua sorella, un’ironia paziente, gli continua a dare del pazzo. Dorme e sogna grano e mais. Forse visioni, forse convinzioni.

Il Podere Stuart di Parma lo stimola e ne alimenta la ricerca. Biodiversità senza scarpe eco-sostenibili da brunch all’asilo nido. Questo è il suo lavoro. I terreni, da lui misurati in biolche, sono traducibili in una cinquantina di ettari. Quasi tutti nelle zone circostanti. Le colture sono infinite e, per forza di cose, vittime di un elenco da sussidiario: grani (blasco, ardito, cambio, marzuolo, mentana, poulard di Ciano, timopheevi, villa glori, virgilio, gentil rosso, angelopoli, sovata), il grano del Miracolo (il motivo per cui è balzato agli onori delle cronache), mais vitrei, ottofile, pignoletti, mais nero del Perù, mais violetto (un pop corn in pannocchia..), mais rostrato rosso, sei tipi di melone (tra cui il melone rospa), cocomeri, angurie, anguria gialla, carote, zucche, l’orzo mondo (l’origine di tutto), cece nero (molto simile a quello della Murgia Carsica) e tutto ciò che gli passa per la testa, in un determinato tempo e in un determinato luogo.

L’orzo è la sua storia. Se lo fa tostare da una torrefazione locale e poi lo consegna nelle mani di clienti o di grandi torrefattori, come Massimo Bonini (Lady Cafè), che proseguono nella lavorazione, macinandolo, polverizzandolo e mantecandolo. Lo fa lavorare dal padre di Massimo, Carlo Bonini, esimio pasticciere ormai itinerante a causa di montati hipster della bassa padana dalla bretella sempre slacciata (Nuova Pasticceria Lady), che glielo trasforma in panettone: la farina d’orzo, a surrogare in parte quella di frumento, gli dà uno straordinario aroma di tostatura, soprattutto nei retrogusti. Il gusto è sporcato dal cacao di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno. Un panificio glielo trasforma in pane (tipica micca parmense, lievito misto, estremamente friabile e profumata di quella tostatura che rimane molto oltre il panino col culatello) e in biscotti (mattutini e rustici). La nota dolente è il cioccolato, non tanto per l’orzo lasciato in chicchi, piacevolmente rotto dal dente in masticazione, ma per la terribile massa utilizzata dal trasformatore (di cui taccio il nome per pietà verso il totem favistico…). Ma la bevanda ridà icasticamente il mondo dell’orzo mondo: autarchia del ventennio, povertà, cascinali freddi e paesi avvolti nella nebbia, seme nudo, grande e selvatico. La perlatura naturale lascia “l’organolettia” ortodossamente intatta. Niente zuppe ma caffè. Intenso, raro, salutistico.

Claudio ha provato a rivestire d’orzo anche delle caciotte di Umberto Avanzini, ottenendo grandi risultati in stagionatura, ma l’invenzione, da queste parti, è già un ricordo.

L’altro lato della luna è il grano del miracolo, o quella miscellanea di cereali (alla cui base c’è il Virgilio, più ricco di proteine, rispetto agli altri) che vanno a comporre la “sua” farina prodigiosa. Il Mulino Pederzani, quello che doveva essere l’estensore del contadino, non l’ha capito. Lo macinava Renzo Sobrino in un’altra era geologica, ora ci ha pensato Mulino Grassi, un grande mulino padano. I 70-80 di W, cioè di proteine, cioè di glutine, cioè l’emblema dell’illavorabilità, sono stati trasformati, grazie a quello che Claudio ha definito “potenziale proteico” e grazie alle mani e alla testa dell’accoppiata Ezio Marinato e Ezio Rocchi in pani strutturati, alveolati e assolutamente fragranti. Ancorché la macina a “pietra verde” (ma qui brancolo nel buio…), quella che non ha più nessuno, quella che non è refrattaria, quella che non scalda, quella che non esiste più, la trova sull’appennino reggiano da un mugnaio per passione che lavora ancora con l’idea di profumo e di mantenimento.

Claudio non può fare a meno di muoversi. Va avanti e indietro per il solaio, per la cantina, per le stanze. Porta spighe di tutti i colori e di tutte le dimensioni, mi mostra il grano del miracolo arso con rispetto per il benessere, battibecca con la sorella, guarda dalla finestra i movimenti delle poche macchine che si avventurano fin lì, distribuisce consigli e rimanda ogni cosa ad insegnamenti antichi. Il tutto con un unico sguardo viscerale. Questa è la terra…

 

AZIENDA AGRICOLA CLAUDIO GROSSI

VIA PIANTONE 6

LESIGNANO DE’ BAGNI (PR)

Carlo Battistella

Aspettiamo con ansia il racconto di questo mulino a pietra verde, di cui pare non esserci traccia….varrebbe la pena andare a fare un giro da questo mugnaio appenninico…..

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