Bisogna rispettare la materia prima?

grano

Territorio, stagionalità e trasformazione. Il rispetto della materia prima, biascicato incomprensibilmente da addetti al lavoro e non, da mamme “illuminate”, professori salutisti e paladini del biologico, è diventato il fulcro di una gastronomia per cui al massimo, al di fuori della stessa gastronomia, non ci può essere null’altro che una leggera perdita di percezione, una banale ubriacatura e svariate strette di mano e dimostrazioni stupite. Ecco, al di là della “legge della pancia” e dell’”arte di regolar lo stomaco” ci può essere qualcos’altro, qualcosa di inter-disciplinare, qualcosa che vada al di là del semplice mangiare senza porsi altra domanda che non riguardi prezzo, quantità e qualità. Al concetto di materia prima si son sempre rifatti tutti quelli che han voluto dare un tono al proprio approccio alla cucina, etico ed estetico insieme, al rispetto della materia prima si stanno rifacendo tutti quelli che vogliono dare un senso assoluto e più profondo ad un approccio che non può prescindere dall’elaborazione e dalla ricezione della materia prima stessa.

Ma siamo sicuri che questa materia prima abbia bisogno del nostro rispetto? E poi, visto che la materia prima ha un’origine necessariamente naturale, che cosa può significare, in questo contesto, il concetto di rispetto? La cortocircuitazione di un rapporto etico con qualcosa di già esistente come può fondere il concetto di rispetto a quello di manipolazione? Rispettare una materia prima significa tostare le fave di cacao a basse temperature o cuocere la carne per 18 ore a 65 gradi? Siamo sicuri che queste materie prime si sentano rispettate? Il rispetto non è qualcosa che riguarda l’uomo? Non è la risposta che l’uomo può ricevere alla sua forma di rispetto?

Quindi quale rapporto abbisogna la materia prima? È sicuramente una relazione che intercorre tra qualcosa di morto, o solo in parte vivo nei fermentati e nei lievitati, e qualcosa di vivo, tra qualcosa che attiene alla natura, sia essa animale o vegetale, e qualcosa che attiene alla ragione, in quanto capacità di sottrarci all’istinto. Anzi, aggiungerò di più, è una relazione verso qualcosa che non solo è morto, e quindi da definizione interdetto alla risposta, ma che si trova sulla strada di una putrefazione (frollatura, proteolisi, decadimento delle proteine) pochi stadi prima della sua completa non fruibilità.

Il rapporto tra l’artigiano/cuoco e la materia prima è qualcosa di profondamente manipolatorio (manus+pilare), soprattutto nel rispetto. Premere con la mano, non c’è gesto più puro e più artigianale che si possa imprimere alla materia. E così fa la sfoglina che impasta sulle spianatoie, il panificatore che forma le proprie micche, il pasticciere che toglie forza alla frolla e il macellaio che rifila una mezzena.

E il manipolare, soprattutto nell’accezione economicamente contemporanea, è il gesto più lontano dal concetto di rispetto che si possa immaginare. Anzi per dirla fino in fondo, il concetto di manipolazione è passato, sotto forma di una metafora più concreta della stessa realtà, dall’indicare una materia fisica modellata attraverso la pressione delle mani ad indicare una materia psicologica modellata attraverso le pressioni di una psiche narcisistica ai danni di una mente tendenzialmente empatica. Quindi da un piano materico con un’accezione superficialmente positiva si è passati ad un piano mentale con un’accezione profondamente negativa. E quindi, all’interno della manipolazione può realmente convivere il concetto di rispetto?

Ecco che si prospetta una nuova triade: la materia prima, il rispetto e la manipolazione. Come si può collocare il rispetto all’interno della manipolazione? Attraverso l’accostamento di materia, di gusti e di molecole? Attraverso il foodpairing? Attraverso la sottrazione o la giustapposizione? Per rispettare una materia prima bisogna togliere o mettere? In che senso la si rispetta?

Rispettare un’origine viva di un effetto morto non è così semplice. C’è di mezzo la traduzione e il necessario tradimento, c’è di mezzo una traslitterazione di un linguaggio che non riporta alla ragione. E così, come si rispetta l’origine? Lavorando poco la materia, come dicono molti chef? Oppure mangiandola così come arriva dalla natura, cruda? E allora alla cucina, cioè al cuocere, cioè al manipolare, cioè al cooking (cucina e cuocere in inglese) che significato rimane? Può esistere una materia prima senza cuoco? Se così fosse, il crudismo avrebbe ragione. Prendere ciò che la natura ci dona senza manipolarlo. Ma così l’uomo non sacrifica se stesso in quanto uomo? Non si appiattirebbe al livello di un animale col solo istinto del nutrimento? Dove finisce quel desiderio che ha reso l’uomo Uomo?

Perché è il desiderio che ci fa trasformare tutto in qualcosa di migliore, niente altro. E lo fa attraverso la manipolazione, cioè il gesto più umano che si possa imprimere alla materia prima. Senza alcun tipo di rispetto ma con la voglia di rendere una spiga un pane, un fungo una birra, un lievito un panettone e uno spinacio il ripieno di un raviolo. Null’altro che la voglia di imprimere la nostra orma sul passaggio. Terreno e spirituale.

Poi chiaramente c’è un lato salutistico della faccenda: le molecole degli alimenti devono essere mantenute in una forma di integrità tale che il nostro corpo sia ancora in grado di assumerle attraverso il cibo. Esempio, se io vado ad essiccare un prodotto ad altissime temperature, l’essiccazione provoca un danno alla struttura della proteina. Molti amminoacidi essenziali l’uomo non è in grado di sintetizzarli e quindi li deve assumere. Ridurre il valore nutrizionale di un alimento, aumentando la velocità di produzione dell’alimento stesso, è un percorso che le grosse industrie stanno cercando di normalizzare, lasciando il consumatore all’oscuro di tabelle nutrizionali piccole, infide e difficili da leggere. Una pasta giallo ocra non è detto che sia sinonimo di salubrità e di qualità, potrebbe essere la semplice vittima di un lavoro ad altissime temperature in fase di essiccazione. 4-5 ore e via la pasta è pronta. Quando cent’anni fa per arrivare allo stesso grado di “secchezza” ci volevano 4-5 giorni. Ed è chiaro che l’incidenza del tempo sul prodotto finito vada a creare un’enorme incidenza anche nel prezzo. Velocità, economia e scaffale. Il tutto in un progetto di gastronomia e di soddisfazione del nutrimento che, nell’assenza di rispetto, rigetta tutta la sua forma di provocazione e menefreghismo nei confronti dell’uomo e della società civile. Qui sì che il concetto di rispetto può entrare. In quella forma artigianale che alla manipolazione pone un limite, e cioè il bisogno dell’uomo.

L’uomo, soprattutto quello italiano, deve mangiare pasta, non solo ha desiderio di mangiare pasta, ma deve farlo. Allargando, deve mangiare, altrimenti non sopravvive. Ed è lì che la nicchia artigianale deve fare un passo avanti per sottrarsi dal tempo e dal prezzo, innestando il concetto di valore. Ed è lì che si può legare il rispetto sotto forma di manipolazione rispettosa. Un qualcosa che abbia ben chiaro i due principi assidui e assoluti della gastronomia come legge della pancia: il bisogno di mangiare e il desiderio di mangiare bene. Se il primo non ci porta, perché indicatore di una soddisfazione meramente fisica, a ricercare il rispetto come forma di una verità, il secondo ci deve spingere, perché indicatore di una soddisfazione fisica e spirituale, a ricercare il rispetto come una forma della verità stessa. Non come fine e nemmeno come contenuto. Come necessaria maniera del nostro porci in relazione con il cibo stesso. Produttore, cuoco o fruitore sono tutti sulla stessa barca, in una sfida per cui la manipolazione diventa l’unica forma di rispetto di una materia prima morta che è già putrefazione. La materia prima non si rispetta, si rispettano i suoi elementi nutrizionali nella maniera in cui il nostro rapporto con la gastronomia diventa un rapporto di scelta. Noi dobbiamo scegliere e non far sì che qualcuno scelga per noi. Nel momento in cui scegliamo una pasta da uno scaffale, il concetto di rispetto che noi possiamo blaterare a parole nella nostra realizzazione della pasta stessa, potrebbe essere già stato irrimediabilmente inficiato dal pastaio che quella pasta ha deciso di essiccarla a cento gradi. E così ci si riempirebbe solo la bocca… di buoni propositi e di proteine distrutte. La scelta e non il rispetto è la maniera in cui porsi di fronte alla materia prima. Sempre… da artigiano, da cuoco o da consumatore… ma questa è un’altra storia… che arriverà…

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