Bologna è sempre rimasta aperta alle istanze dei giovani, a quelle richieste di collettività che senza sosta si son trasformate in quattro manifestazioni, tre canne, due risse, il tempo che passa e un lavoro notabile in uno studio del centro da dove guardare con altezzosità e protervia quella gioventù che continuava a formarsi senza regole. Professori, figli di professori, nipoti di professori, noie su noie senza un reale centro d’interesse. Il tempo che passa, il design, i tappeti iraniani, le travi in legno, la casa in centro, la dipendenza, la socialità come unica forma di esistenza e il conto in banca sempre carico di fascino, capelli al vento e biciclette in “isti”. Le crisi però hanno grattato un po’ di patina e così la produzione non è più rimasta nelle mani del figlio della portinaia ma si è elevata a sistema, a dato di fatto, a sussulto sociale, uscendo dalla clandestinità delle botteghe fuligginose, è stata concessa vieppiù la parola, la mostrazione e la definizione. Senza perdere quel senso di socialità e di fragilità così impregnate. E da qui, da Slow Food e da parti dell’Italia ben distinte, sono arrivati i tre, quattro, forse cinque giovani che compongono le tessere di questa storia.
Il comune denominatore è stata la scuola di formazione dell’Università di Pollenzo, la possibilità dell’artigianato è passata invece dalle mani e dalle fortune di grandi, o presunti tali, artigiani italiani. A loro è andata bene e la storia si è concretizzata. Bonci, Longoni, Carussin, Birra del Borgo, Corte Pilone hanno segnato una strada, hanno mostrato produzione associandola alla teoria. Il resto l’han fatto lo studio degli errori, la compagnia della fretta, lo smembramento del disavanzo e l’opportunità di resistere ad un luogo e ad un tempo che deve essere prima di tutto messo in opera.
Perché la fama del figliol prodigo sparirà, il vitello grasso smagrirà e i giusti santoni inizieranno ad occuparsi di un avvenire con volti meno rugosi e meno imprenditoriali. Alla fine dei conti, dopo la benedizione, le porte della chiesa rimarranno bene aperte al peccato. E così starà a loro, a quei tre, quattro ragazzi, giustificare l’artigianato al di qua del mestiere, nella semplicità ripetitiva del lavoro notturno, del lievito madre, dei cereali antichi e della birra rurale. Starà a Pasquale (Gregorio ed Enrico) dimostrare l’indimostrabile, sbattermi in faccia l’intransigenza, la straordinarietà di quei pani e di quei biscotti prodotti a partire da materie prime impossibili, da me vagheggiate e sempre suggerite ma quasi mai messe in pratica a causa della sostenibilità economica, rivoltare, come è stato rivoltato, il mio scetticismo, e continuare una produzione fuori dall’ordinario a partire dalla terra, dalla serietà artigianale e dalla profondità storica.
Perché qui c’è studio del territorio prima che di sudate carte, c’è impegno, senso pratico e civiltà, la ricerca non si è fermata ai nomi, ai cerali poveri, agli agricoltori col cappello di paglia e i piedi scalzi, è andata oltre, allo svelamento di un pane antico, chiuso, poco alveolato, con poca forza, che avesse una masticazione complessa, dei sapori erbacei, dei mugnai “rabbigliati” e un’elasticità poco invadente e poco definitiva. Difficilmente si era mangiato un pane così, conservabile, dalle acidità inaspettate e assolutamente contro corrente, contro gusto e concettuale. È chiaro che ci sono delle eredità, ma senza confusione, con rispetto e con una strada elegante e pugnace. Il biscotto di riso-cioccolato-nocciole-pistacchi è una delle sublimazioni contemporanee della materia prima. Straordinario, così come i grani antichi, il biancolilla in purezza, il burro dei grandi lievitati, l’olio d’oliva (infido come pochi) nei biscotti, e la friabilità di ciò che deve essere friabile. Ci sono delle limature da apportare, ma il cappello è già giù dalla testa.
Esmeralda dirige bene tempi e ritmi della comunicazione, racconta i lieviti, propone accoppiamenti e gestisce la produzione delle birre a marchio Brisa: soccia e sorbole (american pale ale e saison con cereali antichi). Ha un tocco estetico e gioioso. Entra nell’agone con la stessa rapidità di un sorriso. E il contraltare è dietro l’angolo. La pizza in teglia parte da Bonci e arriva a Davide, laconico con ottimi motivi per aprirsi, è cromatica, con acidità controllate e assolutamente gustosa, perde un po’ di friabilità nel tempo, ma dal lievito madre e dalla conservazione l’attesa non deve trasformarsi in un inaspettato. Davide incarna l’anima hardcore del loro diritto a fare le cose in maniera sfrontata ma con saggezza, con la paura dell’abbandono ma con il superamento sempre a portata di mano. Essere in così tanti è sì un azzardo, e il vecchio adagio ricorda sempre che per aprire un’attività i soci devono essere dispari e tre sono troppi, però la fierezza della rivoluzione non ha prezzo così come la qualità senza cedimenti. Questa è una speranza che si concretizza, è la dimostrazione che l’Italia può essere meglio di un trasferimento e di una fuga di cervelli… Noi ci teniamo quelli che vogliono restare, gli altri siano benedetti…
FORNO BRISA
VIA GALLIERA 34
BOLOGNA