Grani autoctoni, mulini a pietra e forni a legna… Paolo Labita

Alcamo è stata una scoperta in tutte le direzioni, negli sbagli, nelle differenze, nel sudore e in quella compiacenza, stadio fondante e fondamentale, di un’esperienza di Sicilia che non può mai rimanere sulla strada. Deve entrare nelle case, sedersi, prendere il tempo con il caffè, rendersi conto, creare un precedente e non dare mai nulla per scontato. Le relazioni precedenti, il passato, la capacità della diversità e quel ricordo di un tempo in cui tutto era discorde diventano le doti lampanti di qualcosa da cui nessuna apparenza al mondo potrà mai sottrarsi. E così Alcamo riesce a sorprendermi attraverso il calore e attraverso la differenza, scuote la difformità di un destino già scritto e mi regala quelle storie riluttanti che han deciso di non anteporre la vendita.

Paolo Labita, attraverso un panificio di paese, attività di famiglia sul classico siciliano, rimacinato e materie prime indolenti, ha ricreato la circolarità del cereale, quel pane fitto post-siciliano che ha ripreso in mano la terra, la convinzione e l’espressione che non vuole abbandonare quel nonsoché di originario. Così, facendo perno su uno stupefacente forno a legna con le fascine in camera e l’ultima cottura dedicata ai dolci, Paolo ha deciso per i grani autoctoni e per il mulino a pietra.

In campagna, all’interno di un sensibile restauro rurale, ha posto la sua pietra La Fertè, presa a Castelvetrano da Rizzo il decadente, le ha associato un buratto e ha incominciato a produrre, per sé e per la comunità, farine (e semole) integrali e semi-integrali di Tumminia, di Maiorca, di Perciasacchi e di quei grani autoctoni che questa parte di Trapanese, baciata da un clima e da una geografia straordinari, riesce ancora a mettere in circolo. Agricoltore, mugnaio, panificatore e, a breve, anche esteta nitido di questa Sicilia che le aromatiche le deve andare a recuperare nella terra e non dal grossista. In Francia lo chiamerebbero Paysan Boulanger, qui c’è un timido passaparola…

Paolo rimane un tempo indietro, ascolta e ha voglia di imparare ancora i mestieri del grano, la macinazione è una novità, l’agricoltura è una forma rispettosa di mantenimento, la panificazione è quello che la sua famiglia ha sempre fatto. Pani fitti di Tumminia in purezza, niente rimacinato, una rarità a queste latitudini, Reginelle con lo strutto, scorce di cannolo con la Maiorca (l’origine storica del dolce siciliano), taralli glassati con la buccia di verdello e tutta una serie di biscotti che, nella cortesia e nella ricerca di un nuovo palato, devono trovare un senso diverso, lontano, meno siciliano perché profondamente devoto a luoghi riflessivi e sofferti, ad una Sicilia ortodossa.

E non basta più nemmeno la tradizione, la necessità di non tradire i propri geni, qui c’è bisogno di rompere e di scardinare, di una definizione che vada oltre quella macilenta astrazione che va sotto il nome di rispetto, qui Paolo deve provare a fare un solco e ridare a paesi come Alcamo – dove il belletto, dato impasto ai bracconieri dell’apparenza orientale, non riveste il fascino indiscusso della narrazione – un tempo libero dove investire possa significare guardare oltre, mettere mano al portafoglio e pagare la differenza…

IL MULINO DEI SAPORI

C/DA PIANO MARRANO

ALCAMO (TP)

SPIGA D’ORO

VIA MADONNA DEL RIPOSO 118

ALCAMO (TP)

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