Il crepuscolo di un artigiano… Mauro Albertini

Netro. Navigatore fuori tempo massimo. Clima da tregenda e strade sbagliate. In mezzo al fango e con il cellulare senza campo. Mauro Albertini mi tira fuori dalle sabbie mobili con indicazioni estemporanee. Non ancora montagna e sfortunatamente nemmeno vista. Boschi su boschi e una valle dell’Elvo appoggiata sul degradare della serra morenica che nasconde più che aprire. Una collina con i tetti spioventi e i camini. Molto lontano dall’immagine ondulata. Irta quasi nascosta. I paesi sono un susseguirsi di fucine e curve. Il senso è come se non ci fosse. Ci sono delle strade, molte cascine e alcuni cartelli dedicati agli alpeggiatori, vera anima della valle. Poetica e commerciale. I malgari ci sono ma non si vedono. L’unica cascina che mostra un minimo di belletto ha il profilo caprino. Cascina Albertana, “la tana di Albertini”, in una ricostruzione filologica da terribile bocca spalancata. Mauro, settant’anni ex imprenditore tessile, è un pezzo della storia del formaggio di capra.

Gli occhi azzurri mentono sulla facilità. Il dialogo è decodificato dalla sua compagna, Paola, pendolare tra Torino e Netro, maestra di yoga e comunicatrice ironica. Spezza la mitologia, non ha paura del complimento e rilegge l’antico attraverso le categorie del contemporaneo. In poche parole fa da testa di ponte tra due mondi lontani. Mauro è un uomo razionale e sospettoso. Di un’intelligenza che ringiovanisce la pelle e di una timidezza da scudo refrattario. Il dialogo è inamidato, rilassato, ammorbidito e infine familiare. La dimostrazione, per stare seduto allo stesso tavolo, si chiama esperienza. Devo dare fondo a tutti i miei neuroni ma qualcosa esce fuori. Mauro non concede facilmente la gioventù, anche a quelli che giovani lo sono solo sulla carta…

Il formaggio di capra, passione degli anni dei filati e dei viaggi a Lione, è arrivato così per caso. Probabilmente come ricerca di una strada diversa dopo l’industria. La cascina è stata una ri-trasformazione, in mezzo a boschi, stalle, caseificio e un potenziale agriturismo. L’allevamento non ha mai fatto parte del suo interesse. Un centinaio di capre Saanen e un paio di Grigio Alpine. Ha destagionalizzato le capre, attraverso la luce e il buio, cambiando lattazione e gestazione (con tutto quello che ne consegue…). Così da avere il formaggio d’inverno, quando c’è molta più richiesta e molta meno risposta da parte dei caprai.

La sua fama, giustamente meritata, è arrivata grazie al suo lavoro sull’erborinatura. Il penicillium roqueforti lo recupera dalle croste di pane lasciate ammuffire e rigenerate. Il geotrichum candidum lo trova nelle cantine. Il resto lo fa la stagionatura su legno e l’umidità. Il suo blu di capra, adeguatamente invecchiato, è straordinario. Una crosta assolutamente puzzolente, ai limiti del nauseante e un gusto spaesante, di una bellezza rara. Colori, forme, degradazioni dell’unghia e proteolisi fanno il resto. Arriva il fungo, il sottobosco, il miele di castagno e la piccantezza finale.

Il lavoro di Mauro in caseificio è gioco-forza un’applicazione francese al suo latte, con quella necessità di creare fin troppo rispettosa del cliente. Ma in una di queste conformità, i pianeti si sono allineati. Ha messo giù delle piante di fico, che i fichi non li fanno (o se li fanno, li fanno estremamente tardivi), e ha iniziato ad estrarre il caglio, dalle foglie e dai ramoscelli, in quello che resta una sua maniera e un suo modo di lavorare con il caglio vegetale. Foglia di fico a cingere il cacio e una parte nella rottura della cagliata. Stagionato, asciutto, quasi basico come sapore, con una pasta giallo-napoli d’ascendenza meridionale. Granuloso in rottura e ottimamente cremoso in bocca. Il fico arriva deciso, più nella foglia che nel frutto, con quell’asprigno che leva i dubbi al vegetariano.

Le lavorazioni sono potenzialmente infinite, ci sono i latti misti (che continuano ad interessarmi il giusto…), c’è la robiolina, simil Roccaverano, con il distacco dell’unghia, mantecata egregiamente e particolarmente lattica, ci sono le fermentazioni acetiche che fuoriescono un filo ammoniacali per poi riprendersi nei gusti, ci sono i retrolfatti di forme con stagionature estreme, per accoppiamenti decisi e quantità esigue. In stagionatura ci sono i castelmagni di capra, ancora troppo acidi, le croste lavate, che ricordano la fontina, con forti retrogusti fungini, i crottin con il caglio di cardo, le piramidi e il carbone naturale che cinge caprini troppo freschi e forse un po’ troppo resinosi in bocca. Niente allevamento, demandato ad un pakistano nevralgico, e solo caseificazione. Latte crudo, nessun fermento aggiunto/comprato (e questa è la rarità del gusto di cui mi parlava Marco Vaghi), paste crude, semicotte o cotte, stagionature frammentarie e un’età che non ha più il dovere di svegliarsi alle sei di mattina. Mauro vorrebbe cedere l’attività, dedicarsi ad insegnare il mestiere del casaro e la conoscenza delle forme del latte di capra, sempre più comuni e sempre più ardue da personalizzare, magari organizzare qualche pranzo o qualche corso di due-tre giorni e occuparsi della sua coltivazione di bonsai, del suo orto e del silenzio che continua ad essere una scelta ben definita. Sta cercando qualcuno (ma non è facile… anzi, se qualcuno è interessato…) che rilevi il tutto e provveda ad allevamento e caseificazione in un posto tanto inquieto quanto lontano egualmente da paranoia e turismo.

I sorrisi dei suoi racconti, dove mette al proprio posto i grandi Veronelli e Marchesi, ridimensionando i presunti, attraverso letture e aneddoti a denti stretti, i suoi, e da occhi fuori dalle orbite, i miei, sono controbilanciati da una serietà verso il suo mestiere che non lascia scampo né alla gioventù né alla piaggeria. “Io non so allevare ma so fare il formaggio”. Ecco tutto quello che resta. Ma ormai è caligine. Un artigiano di schiena e il suo commiato…

 

CASCINA ALBERTANA

REGIONE CASTIGNOLIO

NETRO (BI)

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