“Middlebrow: fronte-media, una categoria di prodotti culturali e artistici (in particolar modo letterari) che si offrono al pubblico per le loro caratteristiche di facile accesso e fruizione…. tipo………. il cibo?!?!?”. Il middlebrow, probabilmente e così come si è sempre analizzato, nemmeno più esiste, in un’era in cui Šostakovič può diventare la suoneria di un cellulare e può essere “fruito nella disattenzione” (cit. Walter Benjamin), contenuti e forme cedono la mano alla liquidità e a tutte le sue connotazioni e contraddizioni. Lì’ in mezzo, in quel perbenismo culturale dove è l’emozione ciò che conta e dove ormai l’intelletto sembra un principio di separazione, le strutture reazione-rivoluzione fuori escono ancora egregiamente.
Virginia Woolf, paladina ante litteram di varie cose, nel suo sussiego, non aveva paura di prendere posizione, attraverso un grido, un grido contro ciò che non ha uno scopo, verso quella forma parassitaria che dell’highbrow è succube per imitazione e dal lowbrow dipende per negazione o per sottrazione. Inscindibili tutte e tre da quel denaro che, ora come ieri, non può non essere postulato. E così il borghese si appropria della case editrici un tempo, delle case discografiche dopo e dei ristoranti in seguito, permettendo all’artista di non preoccuparsi della contingenza e della quotidianità, costringendo l’artista, come qualunque cattivo padre, a diventare un ribelle, nella necessità di un padrone per esistere, senza educarlo alla rivoluzione e alla rottura degli argini.
Il middlebrow è inopportuno almeno quanto l’arroganza di porsi al di fuori ma è necessario: ad un certo punto, attraverso una spaccatura violenta o gentile, chi è mosso da bellezza, verità e integrità deve gridare o sussurrare la sua necessità di porsi fuori dal potere, fuori da un bisogno e da una società che nel consumo ha coartato se stessa, media ma soprattutto alta cultura, in quel disinteresse verso gli ultimi, estremi proprietari, se fuoriusciti dalla volgarità rispettosa, di quello stato dell’io chiamato desiderio, quella massa informe che ogni mattina guarda il prossimo senza un perché. Lì, la cultura elevata, le Virginia Woolf di questo mondo, nonostante l’idealizzazione, non sono mai arrivate. E anche il populismo sovietico è rimasto un’esaltazione aprioristica, senza conoscenza, come quella dell’uomo di successo che cambia vita andando a produrre olio in Puglia, senza i piedi scalzi dei “naturalisti” assoggettati ma senza nemmeno le mani arse di chi al folklore ha sempre creduto come mitologia popolare.
Viviamo sempre più in una società destrutturata, rivisitata, senza argini da rompere, ma con forme già scritte da spostare semplicemente più in là. Da un lato i middlebrows (travestiti da highbrows) pennivendoli gastronomici, con talmente poco spessore da non vagheggiare nemmeno l’unghia di un Paulo Coelho qualsiasi, e quindi esegeti “colti” di un tema pop e alla moda, dall’altro i lowbrows (travestiti da middlebrows) con le loro giacche da chef, i tatuaggi senza percorso, l’analisi del periodo sdrucciolevole ma sempre pronti alla santificazione artistica, nell’ultima casella gli highbrows (travestiti da lowbrows) con il loro formaggio d’alpeggio che ha tecnica, sapere, emozione ma soprattutto inconsapevole verità. E infine io, e qualche altro diseredato come me senza santi e con i demoni tra il divano e il cuscino che, a differenza di Virginia Woolf, non ha più il suo luogo nel mondo. Ci han tolto il predellino, ci hanno distrutto il popolare e, nell’ossessione specialistica, hanno imposto l’intellettualismo come merito. Quello che ci è concesso è un’insana borghesia da serie tv, dove le differenze non ci sono più e il relativismo è la facciata migliore dove nascondere il sonno e la voglia di commedia ironica serale.
Poi mi trovo in mezzo alla storia di Mara Cagol, alle lettere a suo padre, all’Università di Trento, al rapporto tra formazione cattolica e adolescenza/maturità brigatista, alla rivoluzione armata come forma di espressione surrogata, alle grida metaforiche come forma di letteratura, guardo verso l’alto, guardo qualche mano, guardo i volti di alcuni artigiani e mi accorgo di un sovvertimento gentile che da anni scorre placida sotto il corso della Storia.
La rivoluzione deve essere sempre il principio, l’effetto la cura, mentre il risultato finale non deve mai apparire se non come forma. Condanno fermamente i morti non i processi culturali che hanno portato alla condanna del fronte-media borghese. Il cibo è rimasto come punto privilegiato di un approccio sensibile al mondo, ma non basta, qui si annidano l’emozione (polo positivo) – quella del middlebrow, quella che basta ai salotti televisivi, ai libri raccontati, agli ululanti impressionabili, quella che si ferma in un soggettivismo sterile in cui il gusto è slegato all’esperienza ed è semplicemente un’intifada apologetica di continui “mi piace/non mi piace” dove la vaghezza regna sovrana – ed il principio di autorità (polo negativo), vecchio organizzatore di eventi autoreferenziali e magari con il farfallino da uomo vissuto e compiaciuto dalla propria insoddisfazione, come unici critici dirimenti: pianto incontrollato, esaltazione sopra le righe, sorriso beffardo e saccente che non postula il dialogo.
Ma l’esperienza (un attraversamento, un uscire da sé per passare attraverso), che è sapere/sale e principio del dialogo, non ha bisogno né dei sussidiari né dei libri del Conte di Rumford, è aliena al baraccone e lontana dallo sbalordimento del borghese, guarda dritta negli occhi, chiede critiche e non si fida, non si può fotografare, ha le rughe come sfumatura e un principio all’azione che va semplicemente mostrato e non tolto. Lo dico? Il problema contemporaneo è un problema di estirpazione, una logica metropolitana di conquista, traduzione e tradimento estremo. Non si possono vendere le storie ma soprattutto non si possono negare le sveglie alle cinque di mattina in nome di una continua e imperterrita stupefazione commercial-ironica. I cagnolini o i sette fratelli nani Ovitz non devono più essere portati a spasso, non devono diventare né materia di studio, né materia di discussione, né materia di derisione. Il contadino dis-inurbato non è un raggiungimento, è una frustrazione. Contro il mercato del lavoro, i soldi spesi, la famiglia, la struttura culturale e scolastica. Raggirare il principio per farsi ammansire dal pensiero. Il feticcio del sabato a venire deve mandare a fare in culo l’idolatra dallo sguardo posticcio. L’artigiano, il vero artigiano, quello senza principi assoluti, è un rivoluzionario dalla fronte-bassa perché non pone limiti, i limiti li divelte… come contro, come indietro, come rivolgimento, come ripetizione e quindi come uomo… noi non siamo le nostre scelte noi siamo le nostre abitudini, prima lo capiamo, prima smetteremo di vagheggiare la “spaccatura” del mondo, l’emozione, il carpe diem, il “vai oltre i tuoi limiti” e il “non smettere mai di sognare”… e magari inizieremo a conservarci… e magari a qualificarci ai Mondiali… come quei freddi e robotici tedeschi del cazzo…