“Andare intorno con moine e promesse”
“Non è trasparente e diretta, non ha nulla di altero o nobile, non segna uno speciale desiderio: là dove fallano la forza o la volontà, si gira intorno bussando alle porte più convenienti – ci si arrampica per muri e scale secondarie, si entra dal retro. Così l’ambizioso sarà uno per cui il fine giustifica i mezzi – ignaro che il mezzo è il fine”
Riflessione come a rimandare indietro qualcosa.
Mi volgo e, dopo qualche anno tra territorio e strade che portano verso la meraviglia, rimango impallinato dalla cura della noncuranza, di quel lato umano che i saggi dell’antifrasi hanno definito con il contro aforisma: l’abito fa il monaco perché l’apparenza non inganna quasi mai. In questo dovrebbe venirci sempre incontro il meraviglioso “Ufficio Facce” gestito da Cochi, Renato, Jannacci, Beppe Viola e Teocoli. Si capiva la squadra tifata, ma si poteva capire il credo, il partito o la funzione sociale. Come oggi. A guardare in volto buona parte delle persone che il potere lo possiedono ma non lo conservano, vengono i brividi alla sola intenzione di comprendere. E così la sensibilità “lombrosiana”, fisiognomica, dovrebbe poter prescindere dalle parole. Gesti, sguardi, atteggiamenti, vestiti, mani sul volante, tazzina di caffè alle labbra, coda alla cassa, maniera di affrontare le giornate, il clima, la fatalità delle 24 ore necessariamente da trascorrere. Ecco, l’esperienza del giorno e la riflessione della notte mi han portato a soffermarmi serenamente sull’apparenza, a non andare oltre, almeno non subito, a mantenere quel livello che possa bastare a se stesso. E a riflettere l’esperienza costruita per gradi e categorie. Tralasciando gli stadi della profondità, della poesia, dell’artigianalità, della fatica, della bellezza e, ricevendo gli stimoli giusti da artigiani già passati di lì, mi sono trovato davanti all’ambizione, così nuda e crudele.
Il movimento borghese della casalinga, a cui così bene si è rifatto Artusi nelle sue pagine, lo sviluppo borghese dell’industria, che ha tolto l’impossibile rendendolo possibile sempre e per tutte le stagioni, si è scontrato direttamente con gli artigiani, con quel tipo di artigiano che la vita adolescenziale aveva cominciato a bollare, mantenendolo sì fervido e indocile ma altresì non coeso con il buon costume di procedere per gradi: studio, applicazione, laurea, lavoro, famiglia, carriera, figli, pensione, felicità, funerale e memoria emerita. Così molti di quelli che sono oggi grandi artigiani, hanno avuto un passato di costrizione e di imposizioni. Sono figli di decisioni salvifiche di genitori probabilmente odiati. Ecco, a volte mi ci trovo davanti. Hanno facce laconiche, mostrano le rughe della noia, fanno un prodotto, magari straordinario, che non hanno mai messo in discussione con violenza. Magari a parole, magari nemmeno. Ma il tempo candido non l’hanno mai vissuto nella creazione ma sempre nella ripetizione. Sono artigiani stanchi, dalla mano allenatissima e dall’abitudine infallibile. L’ambizione borghese non è quella della prevaricazione ma quella della serenità.
E non solo. Ci sono quelli che vogliono sfidare l’ordine costituito dal vicino di casa, rivedendosi più grandi. Avere una bella casa, una bella macchina, le scarpe pulite, rifuggire la quotidianità dei grembiuli infarinati per ridarsi un tono. È l’artigiano dei giorni di festa. Quello che passeggia, che fa le vacanze laccate, che investe in macchine e in domotica, che ha riflettuto poco sulla cultura del proprio prodotto preferendogli trasmissione, apparenza e anche bontà. Quello che ti dice che i suoi prodotti piacciono ai bambini, che la sua clientela gli fa sempre un sacco di complimenti e che si vergognerebbe come un cane se venisse pizzicato a non fare uno scontrino o a non trattare da signore la sua dipendente che ha scelto la farina piuttosto che la parruccheria.
Ma allora qual è e quale dovrebbe essere l’ambizione dell’artigiano?
Probabilmente la conoscenza e probabilmente la comunicazione, verso i dipendenti e verso i clienti. Probabilmente il mio modo di pensare anti-economico (abile scudo contro le critiche dei fatturati che camminano…) non arricchirebbe nessuno e il vicino di casa rimarrebbe sempre un ostacolo. Probabilmente l’ambizione dovrebbe uccidere se stessa perché troppo preoccupata a guardare l’altro come causa del proprio esserci. Andare intorno alle persone del popolo, con moine e promesse per guadagnarsi voti, suffragio e complimenti, non dovrebbe essere la giusta forma di relazione e di elezione. L’interesse, probabilmente, rimane altrove, verso una forma di studio che non permette la giacenza, verso quel punto di contatto che è vendita e non svendita, dove le indulgenze servono solo all’assoluzione perché l’assoluzione è, da definizione, senza alcun legame.
Nell’assoluto, torre d’avorio di sussiego e solitudine, l’artigianato muore ucciso dal riconoscimento.
Quindi se non è la solitudine non può che essere la relazione, stavolta anche un po’ più di probabilmente, l’ambizione di un artigiano che non ha più ambizione. L’arrivo è così poco interessante… “Viaggiare è essere infedeli. Siatelo senza rimorsi. Dimenticate i vostri amici per degli sconosciuti” (cit.)…