Leggendari confiseur italiani… Pietro Romanengo

ROMANENGO

Genova è un atriaorto del sud del mondo accidentalmente gettata sulle rive della Liguria. Quegli odori, quelle urla, quei volti, quelle tradizioni, quel mangiare di strada, quegli acciottolati, quei caruggi e quelle crêuze sono incidenti non casuali di una maniera mediorientale di guardare il mondo, di intendere il centro, il negozio e il suo mercanteggiare. Senza divisioni. La passeggiata è già una compravendita. I monumenti possono rimanere stabili e nascosti, l’interesse non sarà mai una contemplazione, almeno da queste parti, in questo modo di intendere il mare come una beatitudine e un consumo, come qualcosa d’individualmente presente, e la natura delle cose sarà sempre scrostata, libidinosa e ironica. Non ci si può nascondere tra le crepe, bisogna uscire fuori e dimostrare di possedere una delle città più incredibili del mondo. Guazzabugli di anime talmente differenti da non avere alcuna direzione, qui si scoprono pudori e tradizioni che riportano verso le navi e verso il passato. I mercanti non si son mai profumati e così chi è arrivato fino ad oggi o ha una storia o è senza patria.

La famiglia Romanengo fa il mestiere del confiseur da 200 anni. Genova è stata per lungo tempo la capitale italiana del candito, qui arrivava e continua ad arrivare frutta da tutto il mondo. “Droghe e generi coloniali”, con questa dichiarazione d’intenti apriva la ditta Romanengo nel 1780 e ancora oggi il fascino dell’esotico rimane senza polvere: gli anni non hanno cambiato la destinazione ma ne han solo edulcorato i termini. Si è guardato alla Francia, soprattutto ai confettieri della Costa Azzurra, e si è perseguita la ricerca di una conservazione affrancatrice prima che gastronomica. Succedendosi Stefano a Pietro, Pietro a Stefano, si è arrivati fino ad oggi, con un laboratorio e due negozi, rappresentativi di una bellezza senza tempo e di una territorialità senza confini. Mentre Genova si è sfaldata nell’ennesimo tentativo di dimostrare come l’Italia sia ormai senza speranza, di tutti gli aromi che corroboravano le vie del centro, dove i canditori non si sono mai trasformati in aziende restando indissolubili artigiani, sono rimasti soltanto quelli di Pietro Romanengo, lontani dalle orme e dalle ombre familiari in quella strada che costeggia una contemporaneità avversa al dolce.

Entrare nel suo laboratorio attiene alla mistica, a quel mondo di operai specializzati che nel grande artigianato di ripetizione e di connessione son riusciti a creare una strada unica in Italia. Vasche di canditura, mulini, macchinari antichi in ferro battuto forgiati per il passaggio di un’epoca che non è mai anacronismo. La frutta arriva fresca, differenza abissale e fondamentale per capire i gradi che separano gli artigiani dalle aziende  – alle cui basi ci sono sempre fretta e scorze surgelate -, e viene lavorata nel più breve tempo possibile. I fichi, le pere, le albicocche, le susine, le arance, le clementine, i marroni e le pesche vengono canditi interi, passano in vasca una ventina di giorni in soluzioni con saccarosio e glucosio (fondamentale per mantenere la struttura, nonostante la contemporaneità riluttante, e già pratica ottocentesca come riportato nel capolavoro dell’arte canditoria “L’Art du confiseur moderne” di Barbier-Duval) che, attraverso un lento processo di osmosi, si saturano ridando indietro un prodotto rarissimo: nella conservazione trovano quei sapori dimenticati o mai trovati che riportano al frutto non ancora colto, attorniato dalla fragranza delle foglie di fico, delle zagare e del legno, in un retaggio emozionale unico. È troppo facile dire “sa di frutta fresca”, perché si priverebbe la conservazione del suo reale valore salvifico, quello che ci mantiene, che ci sopravvive e che continua a cedere sapore nel corso di un tempo più o meno lungo.

romanengo1

E così per tutti gli altri lavori firmati Romanengo: fondants alle goccioline di rosolio, esplosioni ipnotiche tra colori e rotture, canestrellini ai fiori d’arancio, paste di mandorle senza l’amaro profumate da una leggera bagna alcolica che ridona freschezza, meringhe montate alla perfezione, eteree e soavi, confetti ricoperti di solo zucchero, marzapani composti e ripieni di zucchero, demisucres, bucce candite, meravigliose violette che esplodono una volta l’anno in una stanza satura della loro sola presenza, quaresimali, sciroppo di rose, lenta e impercettibile tradizione che sfiorisce al tempo dell’incertezza, confetture e marmellate, cioccolato lavorato in laboratori centenari dove nel corso del tempo alle fave sono state sostituite le masse di cacao, rendendo tutto un filo pedissequo, e un mondo di profumi antichi che riportano al centro il dolce come gusto primario innanzitutto e come sfida ad una contemporaneità sempre più in fuga verso lidi agri e amari.

Pietro Romanengo è la storia di Genova, lo sviluppo dell’idea, il supplizio del mercante e l’olezzo del porto. È tutto insieme. In quelle botteghe di legni e ottoni che racchiudono cassetti e credenze, negli stessi credenzieri, legalmente definiti come operai, che riportano in auge la superiorità dell’uomo sulla macchina, e nella signorilità in bianco e nero gestita e sussurrata tra ricordi e un’umiltà dimentica della facciata. “Io, ogni volta che vado in laboratorio, e vedo una bassina girare e mi accorgo della sapienza con cui vengono prodotti i confetti, mi emoziono”. Che volete di più da un mondo noioso che ha solo risposte e profitti…

PIETRO ROMANENGO FU STEFANO

VIALE MOJON 1

VIA SOZIGLIA 74/76

VIA ROMA 51/53

GENOVA

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *