Orti in città, Giovanni Abbate, Ciaculli e altre storie… Istantanea di Palermo

Mandarini

Così è Palermo. Sono passati quarant’anni e i saccheggi sono stati fatti tutti. È rimasto poco. Della Palermo “gattopardiana”, dei palazzi liberty, delle ville nobiliari, dei giardini di agrumi, dei retaggi delinquenziali, dei monasteri dolciari sono rimasti i frantumi. È rimasta la selezione all’ingresso, quel modo così poco aristocratico di dividere la città in due. Nonostante le infiltrazioni di quartieri popolari all’interno del centro, la mentalità è di un radicalismo snob senza necessità. Paesani, borgatari e cafoni rimangono in quel non-luogo dove i fighetti che salutano il pizzo non hanno l’ardore del piede messo. L’estremismo bolscevico è un disincanto freddo, da zibibbo bagnato dal dolce preso dal pasticciere che l’italiano lo mastica a singhiozzo. Qui esistono ancora persone che leggono estratti di Aristotele a un pubblico sonnolente e impupato. Qui esiste ancora la differenza della cultura, quella con la c minuscola. Dove ci si veste per farsi vedere e poter fare del cortile, dove si sfornano figli senza futuro, dove l’apparire ha un senso racchiuso in quattro vie, ma talmente forte da dare vita a scuole, negozi, centri culturali e circoli. I piccioli vanno spesi, dilapidati, presi a badilate… tanto ci sarà sempre una rendita a cui attingere. Al massimo ci sarà l’amico che è figlio del docente universitario che ha ereditato nel 1958 dalla moglie paesana e madonita. Quasi tutte le storie partono da un professore. Nella patria della pubblica occupazione, l’università è l’ambizione di una differenza. E così si va avanti a raccontare, a raccontarsi e a raccontare. Tutti declamano la propria esistenza manco fosse un cantico di Ezra Pound.

Io adoro questa città, le sue facce, il suo “aristocraticismo”, il suo perbenismo qualunquista, la diffidenza verso il fare, il comunismo delle frange più abbienti, il nichilismo ideologico di universitari che perdono calcinacci manco fossero una metonimia. Qui esiste ancora una gentilezza, rilassata, di cui tutti si ricordano…

E non è la gastronomia siciliana propriamente detta, che è, nella media, al pari di tutte le altre.

Diciamolo chiaro, normalmente (eccellenze escluse…), lo street food alla palermitana non è buono. La milza è rancida, l’arancina unta, la panella cartonata e lo sfincione spugnoso. Il cannolo è comprato da industrie cannolizzanti e pieno di zucchero, la cassata è una carie in fieri e la Sette Veli… ah no, cazzo, quella non è siciliana…

Le persone, però, cianciano in continuazione della meraviglia gastronomica siciliana che si ritrova in ogni posto. Cosa può essere? Forse è quella sensazione che ti ritrovi in mano dopo aver mangiato una pizza lievitata a colpi di martello in un’elementare pizzeria di Terrasini con la pregevole tentazione dell’hamburger con la sottiletta?

Si chiama Gentilezza.

Noi mangiamo la gentilezza. Ecco tutto. Questa farà sempre, ovunque, tutta la differenza del mondo. Anche nello squallore più tenue, l’affabilità di farti sentire l’ospite, sarà sempre lo stupore più stupefacente, quel coperchio che chiude lo stomaco e fa ricordare altro.

Poi ci sono le borgate. Quei luoghi dove vige una realtà diversa, dove le leggi sono codificate e indecodificabili. Esistono al di là della vista, come un leggero sentito dire, in dialoghi tra palermitani e forestieri. Palermo è il centro, il resto è distante.

Così mi accoglie Giovanni Abbate, ottantasette anni e lucida ironia. Via Messina Marine. Tra lo Sperone e la Bandita. In quell’ultimo ettaro di orto in città che ancora mantiene Palermo in una dimensione aristocratica. Il mare al di là della strada e le speculazioni edilizie tutt’intorno, quelle antecedenti il sacco di Palermo, quelle che hanno espropriato tutti i terreni per costruire case invisibili per inquilini fantasma. Dentro il giardino, la pace degli agrumeti è un miraggio da fuga adolescenziale sotto le zagare. Lo sguardo, non appena si alza, diventa invivibile, sente urla, vede panni stesi, muri scrostati, case diroccate e venditori ambulanti. Al di là del cancello, Palermo assume le cicatrici delle sue borgate, quelle senza risposte e con poche domande, quelle che coltivano i migliori agrumi del mondo, in mezzo alla calce e al catrame. Perché di questo trattasi. Mandarini, arance, limoni e qualche pompelmo, ormai introvabile a queste latitudini. E anche al di là della suadenza dell’appena raccolto, della foglia, dei colori e delle fragranze, questi agrumi hanno quel gusto che non lascia spazio alle domande sul tipo di agricoltura, sulla storia, sulla necessità. È tutto lì, in bocca. Perfetti. In quella Conca d’Oro cancellata dall’espansione urbanistica incontrollata. Con quegli occhi antichi di Giovanni che nascondono decenni di soprusi, saluti e “taliate”.

I colori dei mandarini si spostano tra Ciaculli e Croceverde-Giardini dove Viale Regione, la Montagna alle spalle e le case tutte su una via trasformano una borgata nel concetto di borgata. I mandarini dietro i muri a secco nascondono storie di agricoltori consumati, di stragi mafiose, di nascondigli e di case che nemmeno è possibile fermarsi a guardare. Perché Ciaculli è le sue sentinelle, le finestre abbandonate dei pentiti, la ricerca del pizzo ma soprattutto la lontananza dagli occhi. Così, i coraggiosi ragazzi della lotta integrata non si spingono fin qui, dove i vicoli diventano spiazzi senza fuga e sfasciacarrozze dalle corde vocali consumate. E Ciaculli rimane sospesa tra l’immaginario continentale di meraviglioso agrumeto, da passeggiate al tramonto, e il reale incedere e decadere dei tempi e del tempo. Così quegli alberi continueranno a rimanere presidiati…in tutti sensi…

 

DA QUALCHE PARTE TRA LA BANDITA E CIACULLI

PALERMO

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