Bologna ai primi caldi è un rilucere di ozi, pedissequi portatori di borracce e cercatori di fortuna. La zona prospiciente l’università, sotto quei portici fatti per la pioggia e per un’intimità da portone appena accennato, non lascia scampo al pudore, alla voglia di solitudine e di prosperare nascondendosi. È tutto molto manifesto in questa Bologna da centro storico e abbandono da prefabbricato di periferia. La cesura è talmente netta da non rilasciare indietro neanche un pizzico di pietà. O sei dentro o sei fuori. E così è difficile trovare una città con una piazza così ricca di artigiani e cantastorie, di produttori che costruiscono botteghe e laboratori senza scappare, pensando alla passeggiata come unica forma di rispetto e di acquisto. Lavorare con il mondo di dentro e non con quello che arriva da fuori. Code epocali, senza soluzione di continuità, con quella ritualità poco borghese di mettersi in fila per qualcosa che sia l’eccezione e non la normalità dell’offerta e della concorrenza. Questa Bologna attiene più alla vendita che alla compera, si respira un’aria alacre e industriosa che mostra come tutto sia possibile, come la volontà possa essere un’impresa e il desiderio la possibilità di molti.
In questa Bologna, Marco Guerci e Erica Facchini hanno realizzato un’idea, o meglio, uno studio di mercato che li ha portati ad aprire un asporto di pizza alla pala. Qualcosa che mancava, qualcosa che riporta alle origini e alla fatica. Poco più che ventenni hanno dato concretezza ad una progettualità che è sempre fine e quasi mai esecuzione. Ma qui è tutta un’altra storia, qui i piedi sono integrati con la terra, le possibilità si sono trasformate in certezze e, a breve, diventeranno delle occasioni. L’imprenditorialità non sempre concerne l’età.
Lei di Modena, lui di Roma, il triathlon li ha uniti. Marco è stato a pochi passi dal diventare un professionista, una vita dedicata allo sforzo e al sacrificio, corsa, nuoto, bicicletta, gregario, uomo d’ordine, faticatore encomiabile, faccia pulita da persona “insegnata”, è uno che non hai voglia di perdere e che non hai voglia di fregare. L’inizio è stato un lungo studio. Dove aprire e cosa aprire. La passione per la stirata romana e l’analisi di una Bologna che non dava chance, non aveva questa opportunità. Così il passo. Le banche sospettose, i libretti di assegni non concessi, le coperture men che meno, l’investimento con i risparmi di un’adolescenza. Bingo. Due persone che ci sanno fare, che stanno nel mezzo, che non hanno il vezzo della poesia talebana e nemmeno quello della posa decantante, che fanno un ottimo prodotto, a posto, senza prosopopea e senza il parossismo del maledetto. Non c’è sofferenza e non c’è compulsione. Si possono sì migliorare impasti e materie prime, ma senza una reale necessità che non sia l’essere sostenibile, si può fare a meno del vezzo del racconto, portando comunque cultura in un’azienda che è dinamica, giovane e sorprendentemente ironica.
Marco è uno spasso. Non ci sono definizioni più auliche. I suoi racconti sono sferzate alle mandibole. Ma sono tutti concreti. Le salopette, le lavatrici, Oviesse, le banche, il triathlon,i ragazzi immigrati che lavorano per lui, la porta aperta estate-inverno (vittima o carnefice di una scelta tra le divise e il freddo), l’estetica del locale e i pagamenti in anticipo per usufruire di sconti che la banca non ti concederà mai. È tutto in evoluzione, gli scontrini in aumento, le pale giornaliere che han toccato le cinquanta, il numero dei dipendenti ma soprattutto le opportunità di riuscita. È tutto chiaro nella testa di Marco, quasi millimetrico, lo stupore ci ha preso davanti ad un tavolino di un bar/tabacchi – salvato in corner dal florilegio di musicassette che faceva vanto di sé sulle pareti del bancone – con cui ha fatto un accordo di comodato d’uso per i fruitori delle sue pizze, e non ci ha più lasciato. L’arroganza non è primigenia, è una costruzione borghese di un sapere che non si è mai riusciti a condividere. Qui è diverso. Le sue pizze sono lo specchio di una conquista.
Quarantott’ore di maturazione con lievito di birra in bassissime percentuali, farine raffinate di forza senza nessuna preclusione che non sia quella economica (i cereali poveri non sono di queste forme), impasto alveolato, basso, croccante e friabile, pala ben stesa, lavoro sulle materie prime di buona fattura, prezzi popolari e sostenibili, ore di lavoro in aumento ma condivise: (a)matriciana rivisitata, bianca zucca e salsicce, utilizzo dell’ortica corroborante, melanzane in tutte le salse, piccanti che arrivano e tornano, bufale affumicate, acciughe e verdure che danno cromatismo e raffinatezza.
La pizza torna ad essere un cibo popolare e di strada, torna dove dovrebbe stare, senza sofismi, con la voglia ancora di innamorarsi della coesione degli ingredienti, di quella placida intesa che non accetta tormenti e flagellazioni, lasciando il prodotto per quello che è sempre stato, con una capacità contemporanea di colore e di leggerezza. Marco ed Erica sono un esempio di sincerità…
PIZZARTIST
VIA MARSALA 35
BOLOGNA