Senale-San Felice. Alta Val di Non o Nonsberg. Frontiera Nascosta. Qui in mezzo c’è una sottile linea rossa che separa la cultura romanza trentina dalla cultura tirolese altoatesina. L’ordine di St. Felix si trasforma(va) nella flessibilità di Tret (frazione di Fondo), la chiave di lettura rimaneva nel potere e non nella cultura. Le idee, la lingua e il linguaggio sono rimasti strumenti insondabili per provare ad entrare nell’etnicità del luogo che non si scompone nella natura ma nell’ideologia. La verità ancestrale, da una parte, e la discussione, dall’altra, il maso chiuso contro il maso aperto, una società patriarcale sprangata contro l’adattabilità della specie. Il confine flessibile di oggi, che ha rivoluzionato quello degli etnografi Wolf e Cole, rimane sempre una barriera dal punto di vista linguistico. Uno scontro che nessuno dei due limiti è riuscito a far suo: le frontiere sono rimaste frontiere, nessuna delle due regioni è stata inglobata nell’altra. Non è avvenuto quello che solitamente avviene sul confine. Ognuno ha mantenuto – nel tempo il Trentino è diventato più malleabile agli spostamenti e l’Alto Adige ai conferimenti del latte – e il tempo dei masi è rimasto un’attinenza contadina e familiare da una parte e una spartizione fuori tempo massimo dall’altra. Una giornata a cavallo della frontiera, avanti e indietro, salendo e scendendo, dove la cultura ha imposto la prima delle sue discrepanze nelle coltura: in Trentino si producono mele, in Alto Adige boschi. 800 abitanti, due comuni uniti, poi separati, poi disuniti e poi di nuovo uniti, Senale e San Felice sono villaggi che ruotano attorno ad una piazza e ad una chiesa, dove una miriade di particolarità è intervenuta nel tempo per rendere uguale l’abitudine alla tradizione.
A Senale, in fondo alla strada, in mezzo ai boschi di molti abeti e pochi larici, distaccato da tutte le altre abitazioni, appare in maniera leggendaria (l’attesa era tanta…) il Roatnocker Hof, il maso chiuso di proprietà di Georg Weiss che diventa la polisemantica di questo angolo di mondo, selvatico in tutte le sue fioriture e che, come da ritualità ridivenuta legge, tramanderà ad uno solo dei suoi quattro figli maschi.
Georg ha sessant’anni, ne dimostra quarantacinque e ha deciso nel corso del tempo di coltivare e trasformare, superando il concetto di autarchia e di sostentamento, tutto quello che fosse possibile per riemergere in un luogo rarefatto dove c’è sostanzialmente solo lui. Suo padre allevava vacche e conferiva latte, aveva il mulino e il forno per fare il pane di segale, ingrassava il maiale e coltivava il necessario. Georg ha fatto esplodere l’anima stessa della cooperazione consorziata, da queste parti così salvifica, per rendere il suo maso un caleidoscopio di fatica baloccata, dove ogni stanza ha un sapore e un respiro antico e terribilmente unico. È un contadino che nelle piccole cose, quelle fuori dalla comunicazione e dalla cultura che devono scendere a compromesso con il presente, è rimasto profondamente contadino. Regolato dalle stagioni e senza nessun tempo per l’ostentazione. Qui, al maso Roatnocker, la sincerità splende di significati.
Suo figlio Theodor, che non è il primogenito perché prima di lui sono venuti i gemelli Andreas e Alexander indaffarati in altre faccende, è l’erede dell’azienda agricola, il punto di vista basilare per il compromesso commerciale e il fondamento della caseificazione. Latte crudo, due o tre tipologie. Paste molli e semi dure, stagionature nella normalità, qualche aggiunta di essenze e erbe del posto, il tarassaco su tutte, una robiolina di pecora, un fermento da tenere più sotto controllo (ma su questo tema l’arco alpino protogermanico è un feudo…), profumi lattici esplosi, equilibrio in bocca, spurgo e caglio a posto così come le amarezze. I formaggi vengono fatti una volta ogni due giorni, curati con arguzia e stagionati nelle muffe. Perché qui la meraviglia si è opposta a piastrelle e igiene conformista, ha capito che senza substrati batterici formaggi e salumi seccano non stagionano.
Il maso si divide nei suoi principi e nelle sue sussistenze. Sette vacche Grigio Alpine Tirolesi a stabulazione libera e accesso al pascolo tutto l’anno, cinque pecore da latte Lacaune, i maiali per l’ingrasso da aprile a novembre, coltivazione di ortaggi, patate, segale, avena, mais, orzo, grano tenero e, da quest’anno, grano duro Senatore Cappelli, trasformazione del latte nel caseificio aziendale, mulino a pietra naturale con buratto e le stanze di panificazione a cui nessuna foto riuscirà mai a rendere giustizia.
Il pane per Georg è qualcosa di atavicamente legato alla sua storia e a quella del mantenimento. A parte l’acqua come forza motrice del mulino, tutto è rimasto inalterato. Suo nonno e suo padre lo facevano nella maniera di Georg. Nulla è mutato, l’antico è rimasto antico e non è diventato anacronismo in preda al cambiamento a tutti i costi. Una volta a settimana, cereali macinati lentamente, impasto rigorosamente a mano nelle madie, pale di legno particolarmente strette, forno in pietra a legna con fiamma diretta, lievito madre che non è altro che il pane delle settimane precedenti che essicca, si rinfresca, inacidisce e che si porta dietro una storia e una tipicità che nessuna trigonella al mondo riuscirà mai a neutralizzare. Mi aspetto un’acidità estrema e trovo un equilibrio raro. Due tipologie di pane: segale con trigonella e anice, una sorta di Ur Paarl, da consumare fresco o dopo una lenta essiccazione per giorni nel forno spento, e un grano tenero con aggiunta di fiocchi d’avena prodotti direttamente in mulino. Sono pani filologicamente perfetti, che una volta usciti finiscono in queste griglie a muro, in quella coercizione magica che ha sospeso per un momento l’incredulità, gettandomi addosso quell’alogico che ho sempre cercato ma sotto forma di rifiuto. Per completare la scena di vita di una provincia qualunque del 1800, c’è una vocazione al ritorno, per pochi anche a queste latitudini: uno speck in mezzena appeso davanti al forno che mantiene viva la sua affumicatura leggera nel tempo, tagliato per lungo direttamente dalla stagionatura e lasciato lì nella sua diminuzione. Straordinario.
E solo alla fine «venne accettato, che i miei sforzi dovevano indirizzarsi a persone e personaggi sovrannaturali, o anche romanzati, e a trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione del dubbio momentanea, che costituisce la fede poetica». Ecco Georg Weiss. Una rappresentazione della verità…
MASO ROATNOCKER
VIA OBERE INNERE 12
SENALE-SAN FELICE (BZ)