Tartarino di Vicoforte e il cioccolato… Silvio Bessone

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Vicoforte. In quell’angolo del Piemonte che guarda la Liguria, tutto è più candido. Sarà la neve, saranno le curve o sarà la compagnia, ma se esistesse ancora un romanziere d’appendice mi chiederebbe in dono quelle due ore come pegno della sua mancanza di fantasia. L’incredibile è la casualità di una decisione presa, ad una rotonda, stretti dai morsi della fame. Il santuario di Vicoforte è una storia, una dedizione e una leggenda, i pellegrini arrivano, hanno i parcheggi dei pullman, hanno un paese che si allarga in una valle e che richiama la religiosità dello sguardo più che del gesto. Ma il compimento di un rito passa sempre attraverso i mercanti d’indulgenze, gli imbonitori, i predicatori e i venditori di santuari compressi messi sotto-neve. E così ci ritroviamo costretti a cercare un posto dove mangiare, senza un pullman, una guida turistica e un rosario appeso al collo. La difficoltà è l’esistenza stessa di un paese a cui, in assenza di una mistica, rimane solo un motivo d’interesse: Silvio Bessone, un personaggio per cui varrebbe qualunque viaggio.

Un cioccolatiere, anzi un pasionario del cioccolato. Uno di quelli che ha trasformato la fava di cacao in una ragione di vita. La ciocco-locanda, che ha creato proprio davanti al santuario e proprio nelle dimensioni di uno spazio per accogliere i pellegrini (perché il “bisniss” non dorme mai…), è un luogo talmente kitsch da risultare stupefacente.

Antonio Palmieri, Teresa Palmieri e Marco Colzani. Compagni di viaggio, ognuno con il proprio interesse. Non abbastanza affamati da non accorgersi del contesto. Così l’accoglienza diventa già un principio d’azione. Solitudine. Orario spurio e giornata feriale. Bisogna accontentarsi di un panino con formaggio e prosciutto cotto affinato da Silvio nel cioccolato. Il retro-bottega è il luogo dei tavoli e il posto del museo. Quello che ci fa passare la fame, se ancora ne avessimo una. Vecchi tostini, cabossidi in bella mostra, antichi attrezzi, volti brasiliani, ma soprattutto una teca, dove il kitsch si trasforma in sospensione dell’incredulità. Allan Poe non avrebbe saputo creare di più. Lingotti di cioccolato. La solitudine di quelle sedie di legno, estratte dal Libro Tibetano dei Morti, con la rilucenza di quelle fave di cacao estinte e senza una corrispondenza nel reale, mi toglie dall’onnicomprensivo campo della disfida razionale per gettarmi a braccia aperte nella ricerca del volto e delle parole di Silvio Bessone. Io voglio lui, voglio leggenda, mito e racconto.

I miei compagni hanno abbandonato il panino (che dell’agghiacciante si porta dietro tutti gli stilemi etimologici: freddo, orrorifico, inquietante) e aspettano il disvelamento pitagorico. “Il maestro è in laboratorio?” “Adesso lo chiamo” la risposta dell’inadattabilità all’adattabile. Tavolate immense circoscrivono la clientela. Piccoli alberi del cacao, ripiantati vicino alla finestra, e un immenso schermo dove completare con immagini patinate e ritmate il tour de force del pacchetto turistico, non lasciano nulla all’immaginazione.

Il panino non è ancora un assaggio che Silvio Bessone, con l’incedere di un artigiano distrutto dalla giornata, si presenta a noi. E non di schiena. Ha bisogno di un tonificante. Ha bisogno delle mie domande. Così lo incalzo e lui si gonfia ad elio che Tartarino di Tarascona sembra un Kant con meno pomeriggi sul ponte di Konigsberg.

“I mulini a cilindri sono per bambini. Io collaboro direttamente con gli agricoltori. Le fave mi arrivano dalle piantagioni. Parte del burro di cacao lo produco per affioramento della massa. Sono stato oltre 120 volte in piantagione. Dei colleghi italiani l’unico educato è Guido Castagna. Amedei ha degli ottimi consulenti (Domori un po’ meno). Il bagno nel cioccolato è veramente curativo”. Gestisce cioccolato, viaggi, ciocco-locanda, museo, ristorazione, pellegrini, lievito madre, video introduttivi, piante di cacao, salumi, formaggi affinati nelle foglie, chiaramente di cacao (ma qui il viso degli astanti si è perso in un bagno basico d’ammoniaca…), biscottificio, eventi, dolceria, bar, uova di Pasqua, narrazioni a tutti i livelli, pasta fatta, chiaramente, con il cacao, campi di mais e, a breve, qualche vacca grigio alpina in modo da farsi i suoi formaggi con la sua mungitura. La verità è sempre spettrale e poco interessante. La leggenda rimane nei racconti, nei ricordi comuni di due ore stra-ordinarie, nei commenti senza logica che corroborano uno sguardo ma soprattutto nella complicità che si crea ad essere scampati ad un’eruzione vulcanica. Il legame è un viaggio di ritorno alla ricerca del verosimile, con il rischio del riso estremo ma soprattutto con la degustazione dei prodotti.

Una quantità di mono-origini fuori dal mondo. Tutte uguali, sanno tutte di cacao, morbide, grasse. Non ci sono aromi secondari, non c’è un reale lavoro sul gusto. C’è solo una crema spalmabile abbastanza pulita, con le nocciole al proprio posto. Ma l’umanesimo del produttore, questa volta, è talmente più interessante del prodotto in sé (delle paste di meliga flaccide e dei cioccolatini mentolati) che il viaggio è valso veramente tre pene, dieci pene, quattrocento pene. Non c’è nulla oltre quel sorriso amorfo che ognuno si porterà dietro, non c’è nulla di più desiderabile di un avventuriero come Silvio Bessone, perché alla fine è tutto racconto: morbido e sincero (“Spero di non aver detto troppe cazzate…”). Noi siamo i pellegrini e la loro ritualità. Senza snobismo, senza voglia di far apparire un altro se non lui, senza togliere né mettere altra boria e altra aria. È tutto lì in quel tema da occhiale abbassato, lacrima alla Tognazzi e dieci e lode finale…

LE DELIZIE DI SILVIO BESSONE

VIA FRANCESCO GALLO 19

VICOFORTE (CN)

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