Una piadina fuori da qualsiasi previsione… Fresco Piada

piadina

Riccione venendo da Rimini. Un’estetica di semafori e rotonde mancate. In mezzo tra la collina e il mare. Dove non ci vuole andare nessuno e dove vogliono andare tutti, troppi, anacronistici. Rimini è talmente nascosta da non avere una vendita. Tra i Romani e i Malatesta, la storia è stata portata via dagli stabilimenti balneari e dalle frazioni con i nomi più rutilanti. Riccione non ha un segreto, ha dei corsi e un centro storico che sono stati sventrati dalla voglia di silicone. Ci si allontana dal mare e si trova il cloro dei parchi acquatici e la selvatichezza dei parchi a tema. La sponsorizzazione attrattiva è il claim “vieni a vedere le lontre”. Ma chi va a vedere le lontre??? Così la zona industriale diventa quasi un lenitivo. Rotonde, rotonde, lavori in corso, caselli autostradali e il prodotto più tipico nel posto più tipico. La Piadina.

No, non sono arrivato a casa di un’azdora, la reggitrice-massaia romagnola, non ho nel portabagagli un testo o un piano d’argilla dove cuocere una piadina e non sono nemmeno entrato in quella povertà rivierasca che alla piadina concedeva poco romanticismo e molta fame. Il pane povero di allora, che è diventato leggenda ed esportazione, è lentamente uscito dalla cucine, si è compresso nelle atmosfere modificate, è stato svenduto, dileggiato e reso immangiabile, è rientrato dalla finestra della rivoluzione gourmet, ha bypassato le casalinghe ed è arrivato direttamente in uno stabilimento riccionese con otto soci e quasi trenta lavoratrici/tori.

Fresco Piada esiste da quasi vent’anni, è passato attraverso varie rivoluzioni, ha cominciato una nuova comunicazione qualche anno fa, ha preso in mano la filiera romagnola delle materie prime e ha messo a punto una rarissima (forse unica…) piadina a lievitazione naturale. Trentamila prodotti al giorno e una qualità sublime del prodotto finale. L’artigianato da pane impastato con i piedi è talmente distante da rientrare nel folklore… ma come tradizione. Questa piada è più vera del vero. È un nuovo inizio.

Ivan Rigon, da quando è entrato in azienda, ha provato a portare fuori un prodotto conservabile. Quei chioschi, con la cottura diretta sull’argilla e l’impasto dall’ingredientistica improbabile, dove le azdore si sono trasformate in sudore selvaggio e portavivande con l’etichetta, sono diventati una linea produttiva dove le farine arrivano dal mulino Naldoni da filiera romagnola (chiaramente non per tutti i prodotti ma è un lavoro in fieri…), vengono impastate con i grassi (olio d’oliva Vasconi o strutto alla ricerca di un’identità), il sale di Cervia e l’agente lievitante (pasta madre conservata in acqua da Nevio Masini – socio e responsabile di produzione, dall’amore viscerale verso un mestiere che non è mai stato una scuola ma sempre una missione – o baking per i prodotti più tradizionali e per la piadina cesenatica), diventando un impasto che viene porzionato e lasciato riposare in cella. Spianatura, forma circolare e cottura manuale da parte delle “donne”, uniche a poter mettere le mani sulle piastre, sulla reazione di Maillard e sulla precottura, raffreddamento e non abbattimento su una macchina a rulli, modernista e visionaria, che alla velocità tecnocratica positivista sostituisce la lentezza di un prodotto finale fuori da qualsiasi logica. Ripeto: trentamila al giorno. L’atmosfera modificata è stata pensata come mezzo e non come fine. È tutto qui.

Cesenatica, riccionese, riminese. Ognuna ha la propria storia, la propria povertà ma soprattutto le proprie insindacabili dimensioni. C’è quella più alta, quella più stirata, quella più bassa, ci sono anche piadinari che producono una piadina talmente grande da non riuscire ad immaginarla. La mitologia in riviera è spesso vittima di bagnini e animatori. Così gli accoppiamenti sono sempre rapsodici e alla fine van bene tutti. La diversità sta nell’impasto, nell’umidità, nel profumo e nell’utilizzo del lievito madre, unici tra gli unici e molto fuori dall’utilità. Il passato è fatto di latte, bicarbonati, grassi poveri, strutto per dargli sapore e austerità di solo acqua e farina. La lievitazione naturale è arrivata quasi per caso; la digeribilità enzimatica, la conservabilità del prodotto, gli errori iniziali sulla gestione e sugli impasti, la mitologia dell’anzianità del primo ceppo di lievito, talmente sedicente da avere ingannato tutti, sono stati gli inevitabili passaggi intermedi; la piadina in atmosfera protettiva e cinta di rosso, il prodotto finale. Di una morbidezza fuori dalle logiche, ma senza perdere la friabilità della cottura nella prosaica padella casalinga. Un minuto per lato senza grassi. Il resto è contesto estremo.

Michele Marziani l’ha definita piadina filosofale con un retaggio rivierasco ben cementificato. Io mi adatto al non poter più tornare indietro. Anche nell’assenza della quotidianità di questo pane romagnolo che non fa parte regolarmente della mia dieta. I successi di Fresco Piada in giro per il mondo, gli inevitabili convegni dove prestare il fianco ai puristi della cottura per conduzione, la linea demarcata e settoriale dei prodotti, non hanno lasciato per strada nemmeno un granello economico, un cantuccio in cui pensare ai propri competitor e alla propria marginalità. Il prodotto è tutto lì, un lascito culturale delle azdore e dei chioschi riccionesi e rivieraschi.

Ogni paese, dai lidi, fin giù a Pesaro, si porta dietro la propria tradizione obliata e presa a calci nel culo. Ivan, Nevio, Marika e gli altri, hanno solo cercato di rimetterla in piedi e di definire i prodotti secondo la contemporaneità gustativa. Se lo strutto manca di filiera ma non di sapore, viene aggiunto lo stesso, senza sterili dogmatismi. Il gusto è un obiettivo senza tempo.

E questa non è né un’agiografia né un redazionale, è il racconto di un’azienda molto più “artigianale” e rara di qualsiasi sogno di recondito e di qualsiasi solenne pesca al temolo alpino al bordo di un ghiacciaio ormai in dissolvenza…

 

FRESCO PIADA

VIALE DELL’INDUSTRIA 8

RICCIONE (RN)

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