Rezzato. Pedemonte di varie geografie. L’hinterland senza nessi logici con la memoria, la collina di Botticino che non ha nulla di fascinoso nemmeno oltre lo sguardo e il Monte Regogna con le sue cave, che aprirebbe scenari, villette con tetti in pietra, le fabbriche tessili lungo il naviglio e le vecchie cascine stilizzate in una forma di nobiltà che perde pezzi ogni giorno, se non fosse per una strada che non porta da nessuna parte. La via del marmo assomiglia torvamente alla via del cemento. Il Bacino Marmifero della Valle Sabbia, al di là di interessi economici e lavorativi, appare come un’occasione sprecata di ricordo. Eppure il fascino del mantenimento, della lavorazione, della morte, della valle, delle infiltrazioni comunicative tra paesani e forestieri, al di là della banalità museale, manca totalmente di aggregazione, di un senso che possa portare fuori quell’archeologia industriale che continua a dimostrare noi stessi molto più di qualunque Altare della Patria.
Qui, in un intermezzo nascosto, Antonio Pappalardo, con una parte della sua famiglia, sta provando quella cultura a metà strada tra il parlare di pizza, il capire di pizza e il produrre la pizza.
Antonio viene da un famiglia di ristoratori, ha studiato all’alberghiero, ha provato la convenzione della pizza, ha provato la cucina e ha provato la pasticceria. Ha messo le mani in pasta molto presto. Intorno ai vent’anni ha deciso di intraprendere la sua rivoluzione. Ha cominciato a fare qualche corso a Mulino Quaglia, non ha avuto particolari folgorazioni ma particolari stime. Su tutti Roberto Ghisolfi, pizzaiolo di Cremona, compresso tra la contemporaneità senza barba e una comunicazione egotista, ma con una delle pizze più interessanti e conservative del panorama gastronomico.
Ha preso Petra, lasciando da parte le ideologie e lavorando solo le farine, senza occuparsi della propaganda alveolata. Il lievito naturale l’ha sfiorato, preferendo soluzioni più consone alla “sua” pizza: maturazione della pasta attraverso un impasto indiretto, con una biga di sedici-diciotto ore a temperatura controllata e le ultime tre ore di lievitazione. Così, meno di un grammo di lievito su kilo di farina è già completamente digerito prima di andare in forno. Amilasi e proteasi lavorano e scindono, e le farine devono avere un rapporto forza/tempi di maturazione adeguato al lavoro del pizzaiolo. Alta idratazione e medio-lunga autolisi. Antonio ha risolto il busillis, trovando la quadratura del disco.
Tre impasti diversi, una miscela di farina che non può prescindere dalla Petra 1 e dalla Petra 9: forza più integrale. In teglia vanno le pizze tonde e le stirate romane. Il lavoro sul topping occupa buona parte delle sue notti. La pizzeria è aperta solo la sera, alle quattro iniziano ad arrivare i ragazzi. Sua madre si (pre)occupa delle cotture delle verdure, poi c’è un pasticciere giramondo, occupato dagli impasti e dai dolci, che sta dando identità al contesto, suo cognato, qualche giovane che gira intorno, e lui a gestire il finissaggio. Poca carne e tanto pesce, piccoli fritti e dedizione alla stagionalità del menù. Il territorio ha i suoi macellai e i suoi casari. Le pizze s’alternano. Gli impasti sono profondi, le focacce sono serbevoli, le occhiature si ripetono alla perfezione anche a casa. La sua pizza non guarda al territorio e non guarda la Campania, retaggio familiare. È una miscellanea di decisione e gentilezza. Ventisette anni, centinaia di coperti ogni sera e un rapporto pizza/imprenditoria che ha una necessità imprescindibile: la vendita. I clienti di quattro anni fa non sono quelli di oggi, i prezzi rimangono calmierati (eccezion fatta per i soliti gamberi rossi onnipresenti nelle pizzerie gourmet…) e l’idea di degustazione è una delle più fiere risposte alla decaduta contemporanea, fragranza di lievito di birra e cartone.
Antonio sta provando a solcare la propria strada, a metà tra gli alveoli accentuati degli allevatori di quaglie, sempre pronti ad un selfie con la propria pasta in versione traforo del San Gottardo, e la ricerca eccessiva delle combinazioni gastronomiche, quella derivazione veneta, un po’ acida e un po’ superba, che lascia da parte la sperimentazione sulle farine. Per ora, siamo ad un cerchio diventato quadrato. Lentamente Antonio dovrebbe iniziare a districarsi tra venditori, produttori e lievitisti. Continuare ad uscire, imparare e cercare. La gentilezza periferica non appare nella facciata, ma nella familiarità ai nuovi modi di comunicazione. Al momento, l’angolo è quello del cuoco-pizzaiolo, più avanti, magari, arriverà la verve panificatoria o quella pasticciera. Si lavorerà il lievito madre o i panettoni. Lì ed ora, contano la precisione, la pulizia gustativa e la digeribilità. Senza pantagrueliche necessità dei sette impasti diversi e dei quaranta condimenti in carta. La pizza ha un senso economico e Antonio ha la raffinatezza per comprendere dove sia il futuro dell’artigianato, perso a metà strada tra la masticazione e la fermentazione. L’hinterland è sempre stato il luogo delle fabbriche, delle fucine e delle fusioni… ecco il tutto…
LA CASCINA DEI SAPORI
VIA EVARISTO ALMICI 1
REZZATO (BS)