Una pizza convinta… Alan Sartirani

SARTIRANI

Osio Sotto. Pianura bergamasca. A metà strada tra il capoluogo e Treviglio, in mezzo a quelle rotonde e a quei centri commerciali che hanno perso perfino la definizione di “non-luoghi”. Nessun retaggio rurale e nessuno sviluppo industriale. Il capannone continua a puzzare di proditorio e morti sull’asfalto. In questi luoghi non ci sono più lacrime empatiche perché non si vede la fine della malinconia. È tutto nebuloso, senza un passato e senza un futuro. Chi può scappa, chi resta deve appassionarsi alle strade provinciali e ai classici caffè da rotonda, dove col cappuccino e la brioche viene omaggiata la chiave per andare alla toilette. Chi decide di percorrere il cammino dell’artigiano, lo deve fare a partire dal catrame, con un coraggio disumano, senza colline o viste eterne, senza vigne o la ricchezza della solitudine. Così, cercando di attualizzare e squarciando il depressivo, la bellezza può essere comunque trovata. Anzi deve essere comunque trovata. Perché, tra questi cartelli stradali, si sta facendo l’Italia. Senza abbandono e con voglia di esserci. Qui ed ora.

Attilio Alan Sartirani fa la pizza dai tempi in cui la “napoletanità” era l’unico paradigma, l’unico modo di infondere sicurezza in clienti alla ricerca di un cornicione e di una mozzarella tra le brume di Novembre. Il suo maestro fu quel Mario Donzelli, morto recentemente, che portò la pizza partenopea a Bergamo negli anni ’50, e Alan a questo lascito crede come a niente altro. Professionalità bergamasca, passato napoletano e ingredienti di filiera. Una miscellanea bilanciata da un dogmatismo lungi da scalfire. Per lui è così, non ci sono vie di mezzo, la qualità è qualunque cliente soddisfatto, i tavoli sono tutti uguali e il popolare è concentrato principalmente sul testo. Il contesto non è sempre a fuoco, anzi, ma io sono lì per la pizza e Alan Sartirani è un anti-maestro monologante.

Burattata Marino macinata a pietra, un kamut e un farro per tre impasti diversi, il forno a legna sopra tutto, qualche forma di pane, dei grissini croccanti ma poco friabili a cui manca un filo di idratazione e il lievito madre sopra qualunque mitologia. Qui non si fanno sconti, Alan è un realista della pasta madre. Gestita in varie maniere, lavora in solitudine, nessuna biga e niente lievito di birra. Lunga maturazione, amilasi e proteasi perfettamente consumate, buona idratazione, il lavoro enzimatico rende tutto già digerito e il prodotto finale è perfetto. Ma veramente perfetto. Fin troppo perfetto. Crosta friabile, elastica e profumata, base sottile non secca e non umida. La pizza rimane in piedi, è un contenitore assolutamente adattabile a qualunque topping. Ho provato a cercare lati oscuri ma nulla. Nessuna acetica, nessuna acidità ma soprattutto nessuna “ciccosità”. Il croccante e il friabile sono al loro posto, i profumi anche.

I miei timori sull’ingredientistica svaniscono. Al di là del classicismo del posto, del menù e delle pizze tradizionali, al di là dei nomi ruffiani di alcuni abbinamenti, le sue sperimentazioni sui vizi capitali, sono veramente interessanti: una marinara arricchita dal lardo, una pomodoro, mozzarella e crudo molto bilanciata e un’eccessiva mela, scamorza, trota affumicata e liquirizia.

Alan si fa aiutare da un norcino a fare il suo salame con il suo maiale. Stagionato poco e a punta di coltello è interessante, un filo asciutto ma assolutamente morbido in bocca. Nessuna sensazione trigeminale e nessuna umidità.

Tutto definito ma non rifinito. Manca qualcosa nel contorno, c’è un po’ di abbandono in quello che non è pizza o forno a legna, c’è quella sensazione che, al di là dei reperti bellici e d’antiquariato (fantastici), manchi qualcosa. È come se alla velocità di Alan andasse solo Alan. È come se la tradizione, questo sapere da dover condividere unilateralmente, assomigliasse più alla chiusura che ad un ritorno alle origini. C’è troppa franchezza. Il popolare è un concetto ribaldo ma assolutamente da tenere sotto controllo. Ma io ero lì per la pizza e non per l’empatia… o no? Ogni tanto mi dimentico se il prodotto senza il produttore ha ancora senso o ha un senso ancora più profondo… Alla fine mi pervade lo stupore e me ne vado, lasciandolo ai sui ritmi e alle sue certezze… Cerco la fila di macchine fotografiche fuori dalla porta e non le trovo… è proprio un Paese inter-detto e incompreso…

 

LA BERGAMASCA

VIA MATTEOTTI 36

OSIO SOTTO (BG)

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