Una ragazza e il suo formaggio… Marta Spera

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A metà strada tra Belmonte Mezzagno e Altofonte, in quel palermitano moderno che non ha più nulla né da vendere né da raccontare, dove un paese opaco, una via centrale e centinaia di vicoli a ridosso, in cui non si passa nemmeno a piedi, diventano il luogo di un’immaginazione. Il centro è un posto dal dialetto “incarcato” e dalle portiere ammaccate, in quel festival di luoghi comuni che rendono l’hinterland una condizione dal ricordo famigerato. Qui ci sono rocce, avvallamenti e viste sulla città. È un continuo di momenti già visti e piccole epifanie senza senso. Qui, in questo territorio di nessuno, che tutti conoscono, provare a dare soddisfazioni a quella roccia aspra, che si è sempre nascosta, è l’unica maniera di apertura sul mondo e sull’insoddisfazione di vedere sempre le stesse facce e sempre gli stessi tavolini. Sublimare l’allevamento, è un compito che a qualcuno toccava. E la famiglia Spera si è presa l’incarico di non tradire. Marta e suo padre Giovanni stanno cercando una filiera senza ipocrisia e senza compromessi. Così, come si faceva in futuro

La tradizione atavica era quella delle vacche Cinisare e del pascolo brado. La caseificazione avveniva in mezzo alle rocce così come la filatura. Con la pecora si realizzava quasi esclusivamente la ricotta. Vari allevatori consegnavano il latte al curatolo (figura similare al casaro moderno ma con la vocazione alla cura del contesto…) che produceva per tutti il caciocavallo. E così si è tramandato nel tempo. Poi le vacche sono diventate dispendiose, un buon allevamento da carne era più conveniente, così tra quelle rocce, ad affiancare le pecore, sono arrivate Marta insieme alle sue capre.

Qui il tempo si è quasi fermato. Il caseificio è piccolo e moderno, la stalla è minimale e praticamente inutile, gli animali sono al pascolo tutto l’anno. Alimentazione povera di erbe locali con aggiunta di un po’ di fieno e qualche proteina. Dell’allevamento se ne occupa Giovanni che munge ancora tutte le sue bestie a mano. Hanno provato con la mungitrice e sono ritornati al passato, al controllo di cellule somatiche e cariche batteriche, senza dover scendere a compromessi. E la pulizia del latte è assolutamente stupefacente. Marta fa il formaggio, “odia” il formaggio plastificato dei caseifici, e così il suo ruolo di casaro torna ad essere quello di curatolo. Autodidatta (supportata dal fidanzato Gianluca), due anni in giurisprudenza e libera decisione di tornare all’azienda agricola di famiglia, 21 anni e una passione che morde le possibilità. Ha testato di tutto, dalle paste crude a quelle cotte, croste fiorite, lavate, innesti di penicilium candidum e di penicillium roqueforti, complessi caci-ricotta, aromatizzazioni fuori selciato e stagionature difficili a queste latitudini. La capra, mancando di una tradizione territoriale, le ha lasciato spazio, sulla pecora, per ora, il canonico ha prevalso sullo sperimentale. Ma il tempo porterà fuori un florilegio di formaggi diversi, di tempi e di modi assolutamente inusuali. Qui l’estate ruba latte e così le forme sono contingentate. La ricotta è straordinaria, bianco antico, in bocca nessun ircino e molta umidità, particolare pulizia anche nel tempo. Così il cacio-ricotta, che sfrutta la cagliata termica della ricotta e quella presamica del formaggio, ridando indietro una pasta elastica e poco acida. Aromatizzazioni da rimettere a posto, ma l’estetica che nasconde il latte è il lato più evidente del mangiatore di formaggi domenicale. Poi, l’illuminazione. Una pasta semicotta, nascosta sotto una crosta dura e ricoperta di erbe. Occhiatura diseguale e straordinaria masticabilità. Un formaggio iconico e iconoclasta, che in queste terre non si è mai prodotto, di un nitore raro e con ritorni di erbe che cambiano ad ogni assaggio. E Giovanni lo sconfessa, sostenendo la poco più che bontà. In inverno ne sono usciti di straordinari e a me resta solo un filo di invidia.

Gli Spera sono una famiglia che ha sconfitto il tempo e il pregiudizio. La mamma è ancora una mamma, con quella dolcezza da ricette rivisitate che è molto al di qua del giudizio, il principio di autorità è già un sovvertimento e così quello che resta è una passione inconsueta verso il prodotto e verso quegli animali che hanno bisogno di incrociarsi per resistere alla povertà della terra, che potrebbe restare lontana nella vista serale di un cielo ibrido e senza poesia. Perché questa è un luogo di pascoli latitanti e nessuno potrà costringerlo all’interno di una stabulazione e di una dottrina…

 

AZIENDA AGRICOLA BALZO ROSSO

CONTRADA VALLE FICO

ALTOFONTE (PA)

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