Una storia di panificazione operaia… Vito Lasorsa

lasorsa

Torino. L’interno di una bomboniera panificatoria, con finimenti country-franco-provenzali è il più classico degli “inganna l’occhio”. Al di fuori c’è molto silenzio. È una domenica mattina di gennaio, in mezzo ad uno dei quartieri più caratterizzanti la storia della città. Borgo Vanchiglia, ricordato come il borgo del fumo per gran parte del ‘900: emissioni operaie-industriali che pretendevano dalla zona il proprio ruolo proletario ma con il vezzo di rimanere molto vicine al centro. La residenzialità è qualcosa di posticcio, arrivato tardi, in quella rigenerazione urbanistica torinese che ha trasformato l’artigianato in arte. Prima, tra queste vie, non si poteva camminare. Botteghe e opifici. Produzione e lavoro. Adesso, ci sono le più classiche pasticcerie piemontesi che alla storia hanno preferito la fattura, ci sono opere d’arte, chiese bardate, palazzi radicali e poi c’è il panificio Gilda, sensibilità femminile e riserbo, con a capo la manualità a trecentosessanta gradi di un panificatore che riassume la storia della sua città come nessuno: Vito Lasorsa.

Famiglia barese, nato in città e cresciuto in un quartiere operaio come il Lingotto. Voglia di studiare poca, frequentazioni naturali e una possibilità di esondare abbastanza suadente. La famiglia decide di mandarlo a lavorare in un forno. Così Vito inizia a fare il panettiere. Semi-lavorati, impasti diretti, lievitazioni avventate e pane da consistenza serale pietrosa. Crisi di rigetto. Abbandono. Nuove esperienze a Rovereto, in Trentino. Rientro nostalgico e di nuovo pane a Torino. Occasione di aprire il suo luogo. Debiti, mutui, nuove storie e una necessità di essere l’unico in laboratorio. Gianbattista Montanari, consulente bianco, lo stimola, invitandolo a provare il lievito madre. Lui ci prova. Fallisce e ritenta. Inizia a lavorarlo sui dolci della tradizione, poi si sposta ai panettoni. Nella sua solitudine, decide di non azzardare (e per ora il pane continua a farlo con la biga, nonostante qualche vagito inizi a lievitare. Riesce ad entrare in Richemont. Lì si trova in mezzo a professionisti, idrolisi, autolisi, lievito madre, impasti indiretti, bighe e farine qualitative. Ci sono i Giorilli e i Marinato che affascinano, gli altri ragazzi che stimolano e la sua idea di mettersi in gioco. Vito mantiene intatta l’umiltà di essere un semplice panettiere e inizia lentamente a studiare il pane, quello che il pane può proporre. Il futuro prossimo è lì, dietro l’angolo.

Il suo laboratorio è perfetto, lindo e organizzato. Lui fa i dolci, fa il pane, fa i lievitati, inforna, impasta, attende, rinfresca e compra. Il bilancio economico è l’abbrivio, il mezzo e il fine. Vito non riesce a liberarsi dagli impicci e quindi DEVE lavorare. Nessun biasimo, anzi, ma le materie prime devono essere ripensate, riviste e rimesse in piedi. Le sue mani e la sua passione hanno bisogno di un mezzo più corroborante, con maggiori profumi, sapori e consistenze. Anche senza i miei denti sulla crosta e sulla mollica, il pane è in fieri, più nella sua volontà che nel mio desiderio. I dolci sono confortanti. C’è quella cannella nella focaccia dell’epifania (particolarmente ricca di canditi) che, nonostante lo stupore, riporta alle feste, al Natale, al forno. Il panettone è un filo chiuso, umido, troppo aromatico ma assolutamente masticabile. È buono ma è come se mancasse di bilanciamento tra i sapori.

Ecco, Vito è in quel limbo dove manca sempre un centesimo per fare un dollaro e dove la pioggia è già una colpa e un registratore di cassa. Se la sospensione gli concedesse un po’ di leggerezza e di serenità, potrebbe tentare, provare a comunicare quella bellezza che già c’è e che non è sempre una lotta…

 

PANIFICIO GILDA

VIA SANTA GIULIA 39

TORINO 

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