Val Pomaro: la materia prima al servizio di una grande storia… Famiglia Bonello e Andrea Cesarone

cesarone

Arquà Petrarca. Un luogo credibile, che punta verso l’alto di una dislocazione geografica decisa ai dadi. Nella fortuna e in quell’alternarsi tra vulcani e ulivi, la crescita edilizia si è bloccata presto, romano e longobardo sono rimasti nel ricordo di un Petrarca stanco e anziano, che coltivava i suoi terreni nella memoria di uno scorcio che non fu suo per mancanza di tempo. Un medievale intatto che si attorciglia e ricorda qualcosa d’altro, di lontano, legato a cipressi e parlate ironiche. Qui in mezzo, il piglio veneto del lavoro indefesso deve recuperare presto la sua parentesi d’ozio. Il tempo ha un peso e una lunghezza, la stima è sempre per eccesso e le aziende agricole non si sono mai nascoste dietro l’agio di qualche vino e di qualche olio. Il maiale deve continuare a rappresentare l’inverno perché qui le colline terminano presto e il turismo non è un buon modo di guardare al mondo. E così, usciti dal centro, dove si rincorre il suggello della storia e il nome suggestivo da calzari e bevute in calici a forma di tulipano, la famiglia Bonello è rimasta l’esegeta più stupefacente di un’estrazione territoriale.

Val Pomaro è una dichiarazione di guerra all’uniforme, alla ristorazione senza più insegna che non sia la rivisitazione, all’appiattimento gastronomico da palato sempre pronto e da denti sempre messi da parte come simbolo di aggressività e ferocia. Residuo di volontà, resistenza ad una gastronomia melliflua, morbida, fatta di compromessi, coccole e diverti-bocca. Con l’apice che si raggiunge nella contraddizione delle tovaglie lunghe e dei tavoli raffinati, in quella promiscuità che non può mai compromettersi con il cliente. La famiglia Bonello, che in Andrea Cesarone ha trovato l’espressione tecnica della sincerità irriguardosa, quando smette il vestito ristorativo, mostra il lato artigianale più rigoroso. Quello scarto che rimane sempre oltre il progetto. E così sfugge, si divincola e avanza nelle parole e nei fatti di Orazio, il capofamiglia appena prima della leggenda…

Dialetto senza respiro, quel modo intransigente di non pretendere la traduzione, sicuro alla meta di un obiettivo che deve essere nella condivisione. Allevamento uso famiglia, pochi maiali l’anno, abbondantemente sopra i duecento kili, alimentazione bilanciata tra proteine e grassi e una norcineria controllata direttamente da lui che sovrintende da cinquant’anni alla raccolta delle olive e dell’uva e alla ritualità del suino che da autarchia contadina si è trasformata in godimento lascivo e in stupore lassista. Lazzarina, figlia di Orazio, e suo marito Andrea trasformano freschi e insaccati in cucina, cercando di ridare indietro qualcosa che sia devoto e praticante insieme, un maiale che sia contemporaneo ma vestito.

E così il cotechino diventa la sublimazione di una pratica che non può essere tradotta: straordinario grasso di cotenna che non si scioglie ma si mastica ancora. Soppresse stagionate un anno (incredibili) e coppe di testa fatte con criterio e senza nemmeno salnitro, testimonianza di una carne di suino che mantiene i propri sapori prima di qualsiasi speziatura e copertura.

Andrea è un cuoco dalla mano felice, che si trovava su una strada più concreta prima di incontrare Lazzarina e Orazio. Non ha perso troppo tempo a capire che la materia prima dello chef e quella dell’artigiano non sono la stessa cosa e così si è ritrovato cuciniere e produttore. Ha affrontato la sfida del lievito madre passando da due delle antitesi più intime di questa Italietta, sprofondata nel sonno dogmatico di bocconiani convertitisi alla lievitazione come abluzione purificatoria per non dover fregare il prossimo troppo smaccatamente: Rolando Morandin ed Ezio Marinato. Ha compreso che l’acidità non è necessariamente un pregio, si è ritrovato in mezzo tra Grassi ed Agugiaro (con un formidabile mais De Tacchi di Grumolo delle Abbadesse) e da lì è partito a produrre i suoi pani, i suoi dolci lievitati, tra cui un panettone raro per equilibrio e consistenze e che dovrebbe osare di più nella finezza olfattiva, e una pizza, diametralmente opposta alla focaccia made in Vighizzolo che ha messo a ferro e fuoco mezzo Veneto, piena, profumata e enfatizzata dal raperonzolo, raccolto da Orazio, irriguardoso esame territoriale senza comparazioni e senza simili, nella ristorazione vicina e lontana.

Andrea e la famiglia Bonello abitano quel confine preteso, in cui ogni giorno è differente dal precedente e ogni ingrediente ha un tempo e uno spazio in cui esprimersi e morire. Mancando di definizione, lasciano dietro di sé incompresi e figli del pensiero unico. Qui il palato riconosce ancora i propri limiti….

VAL POMARO

VIA SCALETTE 19

ARQUA’ PETRARCA (PD)

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