Val Rendena: erbe selvatiche, danze macabre e condivisione

Luoghi contaminati, dialetti randagi e un autunno che arriva presto, a cui bisogna fare attenzione, a cui non si scappa. Per certi versi fatata, questa valle, nella sua antropizzazione, non ha avuto troppi riguardi, le costruzioni e le strade tagliano senza impietosirsi, l’ampiezza gioca a loro favore, le valli laterali han mantenuto intatto il proprio senso d’antagonismo, quel sostare emancipato che non da tutti è visto di buon occhio. La Val Rendena è la valle degli arrotini erranti, degli scultori erranti, delle erbolaje erranti in mezzo alle radici, degli orsi erranti di cui si parla soltanto (e solo di questo) fuori stagione, dell’assenza di confini sociali, temporali e spaziali, dell’organizzazione diacronica che non fa discriminazione tra barbe, volti imberbi, gomiti alzati e sguardi primitivi. Quando cala la notte, ci si ritrova, non potendo guardare attraverso. I fantasmi sono lì, rimangono ancorati nei lunedì mattina, in quell’abitudine che è ripetizione glaciale dove tutti perdono storie e prendono epopee. Luoghi come il Moleta, come i bar dissepolti e notturni, come i miracoli del Togno e gli anfratti terapeutici delle sagre di frazione, rubano il raziocinio urbano, sospendono l’incredulità e fanno osservare. Senza troppi fronzoli e senza troppe provocazioni. L’ironia è una struttura cittadina, come lo stupro, qui si parla schietto, i fronzoli pendono dai vestiti, la montagna adombra e le luci accese sono ancora una forma di patriottismo.

Qui in mezzo Noris Cunaccia (http://ilsaperedeisapori.it/il-ri-conoscimento-di-una-stupefazione-noris-cunaccia/), “eminenza prativa” di queste valli, insieme ad un manipolo di irriducibili, ha rischiarato un mucchio selvaggio, portando fuori un’istintività primitiva, una coscienza popolare che non ha mai perso le sue radici accessibili. Ci sono i distillatori, c’è l’Andrej Rublev poco ortodosso, ci sono gli orsi, ci sono gli anacoreti senza resistenza da dimostrare, ci sono le guardie forestali, i cuochi selvatici, i raccoglitori di radici, i vignaioli, ci sono gli studiosi, i giocatori di briscola, i bevitori indefessi, quelli dal tempo sempre garantito, gli albergatori stellati, gli iconoclasti e i proprietari terrieri. In mezzo a tutto, c’è la comunità, la regola e la democrazia. E così anche le danze macabre di quei Baschenis, famiglia bergamasca di frescanti erranti – rimesse alla contemporaneità anche grazie al supporto di Alessia Segala, pittrice di icone, restauratrice e libera pensatrice -, rientrano in un progetto di mantenimento che da queste parti non emana miasmi d’autorità. Qui c’è un altro modo di possedere, ci sono le proprietà collettive che legano indissolubilmente il popolo con il suo territorio, le montagne, i pascoli, i boschi sono atavicamente legati al concetto di vicinia, di comunità, di eredità e di conservazione. E così la natura diventa qualcosa di condiviso, dove ci sono delle regole e del rispetto. Lì in mezzo, si è deciso di affidare alla cura di Noris una parte del lago di Nambino, sopra Madonna di Campiglio, una baita e gli incontaminati prati dove insediare il suo studio delle erbe selvatiche. Dirimpetto le guglie trattenute e pallide delle Dolomiti di Brenta, dietro il riflesso, l’imperatoria, i rododendri, i cercatori, i larici, le leggende… c’è troppo poco tempo, c’è uno spazio condiviso che ogni volta è un po’ nostalgia e un po’ magia. Di quelle magie che non trasformano ma evocano spiriti, prodigi e stupefazioni…

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