Valsamoggia: una storia d’imprenditoria e formaggi… Gabriele Manzini

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Quello che fu Monteveglio e che è Valsamoggia, la fusione di luoghi distanti, di territorialità dissepolte e di hinterland che diventano colline e montagne. L’agricolo non è stato soppiantato del tutto dall’urbanizzato e il paesaggio, abbandonato al selvatico, rimane possedimento di quei colli che, al di là dei vigneti, mostrano ancora cieli tersi e obliqui impossibili da non fotografare. C’è una ripetizione continua di dialettica fascinosa, l’agriturismo, l’agriturismo da tortellino in brodo ed eretica rivisitazione con la panna, saliscendi continui, curve a gomito, orizzonte sconfinato e un tempo della sosta che non è mai noia. Così spariscono le fabbriche e appaiono le scenografiche costruzioni in pietra abbandonata, un segno umile che la collina si è presa al di là delle rotonde e delle linee dritte. La Valle del Samoggia è un fluire di calanchi e tradizioni, una comunione d’intenti prima che unione d’interessi, dove i mulini sono ancora mulini e le pievi possono esprimere ancora la funzione rurale di aggregazione e di campagna. Qui, pochi metri dopo il mercato e pochi metri prima dell’oblio, la famiglia Manzini ha deciso di rielaborare il proprio punto di vista su commercio, artigianato e tradizione.

Sigfrido Manzini ha cominciato a produrre Parmigiano Reggiano negli anni ’70, ha superato due crisi che hanno mandato ko quasi tutti i caseifici bolognesi, ha visto l’oscillazione dei prezzi del latte e la svalutazione assoluta di quelli del Parmigiano, ridotto a comprimario e paradigma da esportazione di cui farci vanto in giro per il mondo. Ma gli anni ’80 sono finiti troppo presto e la barbarie sotto forma di reprimenda culturale è arrivata a fermare i cuori. Così la famiglia Manzini, nel 1990, ha deciso che il Parmigiano lo avrebbe solo stagionato, confezionato e venduto (con benefici economici indiscutibili!), provando la strada della diversificazione produttiva. Forme più piccole, più fresche, un magazzino meno complesso, stagionature meno coercitive e prodotti per mercati inesplorati, dove fungere da novelli Marco Polo. E così anche i figli di Sirio han potuto portare l’azienda sulla strada della modernità. Gabriele è dentro e fuori da una vita. La produzione non era la sua strada e non sarà quella dei suoi figli, c’è troppa innovazione fuori di lì per rimanere sotto coperta. E così, dopo aver imparato a fare i formaggi, tra gli anni ’80 e gli anni ’90, ha creato una rete di rappresentanza gastronomica che gli ha permesso contatti con i mondi più disparati, fino all’idea dello sviluppo di Fresco Piada, straordinario modello di innovazione e conservazione di uno dei prodotti (la piadina) più sviliti e banalizzati, che ha portato, insieme a vecchi e nuovi soci, agli albori di una contemporaneità che li vede portatori di un verbo unico. Da lì, le vicissitudini della vita, che non sempre vanno nella direzione auspicata, l’han portato ad un rientro in azienda per sviluppare, insieme al padre e ai fratelli, un’idea di caseificazione e di filiera molto al là del formaggio. Dalle farine al latte, Valsamoggia è un laboratorio/bottega che è stato capace di cambiare le rotte normali degli abitudinari da Parmigiano Reggiano. Qui, Sigfrido e la moglie di Gabriele, Donatella, affettano e tagliano la sospensione dell’incredulità. Molto più di qualunque caseificazione e ritorno al passato, dove Gabriele prova a farmi entrare al di là della modernità della compravendita del latte.

Vacca, pecora, capra. Con destinazioni d’uso differenti e allevatori sparsi tra l’Appennino e i Colli. I vaccini rimangono sul fresco e sul tradizionale. Le caciotte, qui, hanno segnato una strada. La semplicità nei formaggi è qualcosa di talmente localizzato da avere dei confini sorprendenti: pochi kilometri al di là di Castel San Pietro e questo tipo di formaggio non lo vuole più nessuno. Così sono arrivate le acidificazioni e i metodi antichi di squacquerone e mascarpone. Latticini rivalutati dal grigiore della riviera e della bassa padana. Salamoia e stufature antiche, lo squacquerone ha una punta erbacea in mezzo alla proteolisi. Il latte pastorizzato è indifendibile ma quasi necessario sui volumi. Così come nel Mascarpone. Probabilmente il migliore in circolazione. Acidificato con citrico, lasciato riposare nei teli, asprezze controllate, niente sale, grassezza sul 33-36% e gusto corroborante. Invernale e contestuale.

Ma è sulla lavorazione della pecora che i Manzini trovano il tocco. Al di là delle croste trattate, dei pecorini dolci e dei prodotti semplici per deschi quotidiani, dei cagli vegetali e delle lavorazioni a tre latti, quei due pecorini, quello all’antica e il fossa, sono un lavoro sulla stagionatura particolarmente raffinato. Il Pecorino di una volta è un latte termizzato di pecora appenninica, quattro/sei mesi di stagionatura, retrogusti vegetali, nessun trigeminale e una pasta assolutamente friabile. Il Fossa, sotterrato a Cartoceto dal maestro imbonitore Vittorio Beltrami, è stupendo, umido, legnoso e muschiato. È la chicca in quell’informe che non è nemmeno discussione tanto imprescindibile alla vendita…

…ma basta l’assaggio dei loro tortellini per chiudere molti discorsi. Testuali e rari. Un prodotto che non ha bisogno di nulla.

Perché nella semplicità del paese, lontano dai riflettori mondani della sperimentazione a tutti i costi, Gabriele porta avanti un’economia reale che si basa ancora sulla vendita e sul retaggio, lasciando da parte quella comunicazione del surrealismo che ormai pervade qualunque palato. La leggenda paga solo lo stupore e le formidabili penne… e anche quelle meno formidabili che ci credono ancora…

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