«Se ognuno di noi confessasse il suo desiderio più segreto, quello che ispira tutti i suoi progetti e tutte le sue azioni, direbbe: “Voglio essere elogiato”» Emil Cioran
Sono finito nel mezzo del riconoscimento di una riconoscenza. Una riflessione senza coscienza che ha scambiato la gratitudine per qualcosa di ultra terreno, quasi di spirituale. Sono finito nel mezzo di un congresso di chef celebrità dove l’autoreferenzialità è rimasta l’unica cifra interpretativa. E così mi sono fermato e ho provato a capire, a guardare le facce, a camminare su di me e a sostenere lo sguardo dei salivanti. E lì ho inteso un passaggio, un cortocircuito etimologico, nato nel tempo, che caratterizza varie contemporaneità.
Riconoscere è ringraziare, almeno in uno dei suoi significati più sviluppati, e il riconoscimento dovrebbe avere sempre l’altro come oggetto di una gratitudine. Adesso si sono ribaltati i ruoli. Il riconoscimento parte e arriva dallo/nello stesso ego. È ritornato indietro. È l’esistenza di una passione che spinge gli esseri umani ad aspirare alla considerazione e alla stima da parte dell’altro. Come forma di relazione. E così nel cibo. Nell’estetica legata al cibo e nell’estremo concettualismo legato al cibo. C’è prima il sé e poi la cosa. Anche qui siamo riusciti a dichiarare la preminenza del pensiero e del pensato. Anche nell’alimentazione e nei bisogni primari. Molti di questi attanti, che della cucina si riempion le tasche e le bocche, hanno smesso di conoscere il territorio e i produttori, di cercare, di stare un passo indietro, di rispettare (certo a parole sono tutti fanatici della terra e dei suoi risvolti…) e si sono abbandonati al riconoscimento del proprio ego.
Stanno lì, inebetiti, con un sorriso inebetito davanti ad un obiettivo inebetito, surrogando la supponenza in indorate pillole di munificenza verso gli astanti sempre più proni, sempre più vicini all’incombente reazione che spero, chiaramente, non arrivi mai. Ronald Reagan (leggasi Jodie Foster) e Monica Seles non mi sembrano più tanto distanti e nemmeno i bodyguards dell’impiattamento e gli sfollagente da vacanze ai tropici. L’idolatria, nemico primario dell’incarnazione dello Spirito – altroché bestemmie, bigotti idiopatici della televisione italiana!!! – è dietro l’angolo. Dal Diavolo a Hitler il discostamento non è mai un’assoluzione. E così l’assoluto diventa assolutismo e i falsi profeti si fanno adulare da masse salivanti. Ma il Vero Maestro dovrebbe dire vaffanculo, riportare l’assoluto in cielo e cancellare la polvere con una strisciata di contingenza. Questo è l’umano. Veline, calciatori, recitatori di condominio… chef. Un bel gruppetto in cui confondersi!
Fare il cuoco significa mettersi in cammino o in macchina, cercare, ricercare, collaborare con un territorio, anche lontano, ma senza intermediari, senza persone che provino dumping e rialzi, senza commercianti di cibi rari e preziosi o alleati di talento, ma con i propri occhi, le proprie mani e la propria testa, magari portando con sé la “brigata”, in mezzo alla merda, in mezzo a quell’unica assoluzione che permette di guardarsi allo specchio senza cinismo. Perfino con qualche fanfaronata ma senza cinismo. Perché quando incontri un produttore vero, il riconoscimento torna a pretendere l’etimologia antica…