Alsazia. Una bellezza bella. Un luogo estremamente preciso, senza quella trasandatezza francese che tutto lascia immaginare. Un posto quasi liturgico, estremamente cattolico, con i tetti a punta, le case a graticcio e i vasi di gerani fuori dai balconi. Colori pastello mitteleuropei e persiane che non tolgono nulla. I paesi si susseguono alle città senza soluzione di continuità. È tutto delizioso, anche il territorio. Quei vigneti, che diventano vigneti e che sono ancora vigneti, non lasciano spazio alla natura. Le foreste riempiono i monti e sono lontane, sono più buie del buio e vivono di contesti da film horror di serie B. Senza macchine, con castelli che appaiono improvvisi, tra il medievale e il digitale. Quella natura povera da bestie al pascolo è riservata ai Vosgi che sono già montagna e non più stradine.
L’Alsazia nasconde il turismo nei suoi paesi che, tra cicogne e domaine vitivinicoli, hanno deciso per i bambini , le famiglie e i soldi. Dove c’è vino la bellezza non è mai un’astrazione così come la povertà. Esistono anche qui luoghi da banlieue e facce solcate, ma sono rarefatti nel loro ghetto. Non escono, non si vedono, non fanno vacillare.
L’Alsazia è un posto estremamente pulito, un po’ tedesco, molto geometrico, assolutamente bello, senza estensione, senza tempi di recupero, con paesini che continuano a celebrare il racconto cartolinesco preparato per la vicina di casa.
Heiligenstein. Ferme Truttenhausen. Fattoria biodinamica. Rischio la provocazione ma l’incomprensione linguistica mi salva dalla discussione. Due piacenti wwoofer svizzere sorseggiano da una tazza, mentre un poco enigmatico garzone hippie, capello lungo e barba ricopiata, di quella negligenza ecumenica, riconoscibile ad occhio nudo nella categoria ribellismo, svuota un furgone. Fortunatamente mi perdo il cornosilice, la bottega e le spiegazioni. Sono tornati da poco da un mercatino a Strasburgo dove hanno finito tutto. Così mi lascio conquistare dalle straordinarie Jersey, con una panna al 38% di grassi, e da una forma di Munster da oltre mezzo kilo. Qui è religione. Non c’è fattoria che non lo produca. Prescindendo da tutto, l’assaggio è particolarmente preciso. Lavatura estrema, puzze fuori dal normale, cremosità da tre settimane, proteolisi accentuatissima, nessuna ammoniaca e assoluta pulizia in bocca. Dolce e fungino insieme. Scappo e infesto la macchina.
Collegamento: c’è una boulangerie a Obernai che lavora i loro fiori per fare il pane. Così almeno capisco, chiaramente fraintendendo. O no? Non l’ho ancora capito. Arrivo senza pretese ma la coincidenza è dalla mia.
Saveurs Bretzel. La boulangerie di Helène Schwartz, moglie di Thierry, chef del Bistro des Saveurs, uno dei migliori ristoranti in zona. Qui il lievito di birra si usa solo per il Kugelhopf e per i bretzel. Passabile il primo, indimenticabili i secondi. Come mangiare quella cosa, quella determinata cosa che avevi smesso di cercare o non avevi mai cercato, per la prima volta. Niente soda caustica naturalmente, grano tenero locale, un profumo, una morbidezza, un equilibrio del sale, un ricordo di brioscia siciliana, soprattutto nell’impasto e nella naturalezza del gusto. Super.
Il lievito madre è quasi una religione per Hèlene, italiano imparato anni fa in un albergo di Courmayeur, gentilezza, ricerca di prodotti locali e pasta di Giacomo Santoleri (!!!). Baguette perfetta, grigia, lunga, con una durata di quasi tre giorni, alveolata e strutturata in bocca. Pani con farro, grani antichi, fiori, pani di campagna, non particolarmente lunghi, ma sicuramente salvifici. Lo stupore è un pane al fleur de sel nero, a forma di rosa, sfogliato col burro, con una durata sorprendente e un gusto che del francese si porta dietro le contraddizioni. Un pane da foie gras e da salivanti per il burro.
Strasburgo è un florilegio di posti chiusi e di ristoranti pieni. Edith Beckers (albergatrice e moglie di Christophe Felder…) consiglia il posto più pieno della città. Finkstuwel. Con pietà italica e volti segnati dalla disperazione, ci fanno sedere. È periodo di asparago, ma mi dedico alla Choucroute, un terribile ensemble di crauti e maiale senza una reale fine. L’aceto devasta qualunque cosa. Buona, per carità, ma un quinto di porzione.
Il centro di Strasburgo è indistinguibile da un paese da cartolina. Cattedrale solenne, piazze per l’aperitivo, fiumiciattolo navigabile, case a graticcio, nitore sorprendente, banlieue nascoste… poi, però, c’è il Parlamento Europeo e il quartiere che lo circonda. Un’elezione borghese della bellezza. Tutta a base di bianco. Dove realmente la città si trasforma in una città.
Per la route des vins non è mai troppo tardi. Così m’incammino. L’idea della natura è più nella ricerca dell’asparago che nei vigneti, così geometrici, così costruiti, così paralizzanti un ambiente. La mia passione sparisce alla decima curva. È un paesaggio industriale mascherato dai fratelli Grimm. Supero l’autostrada, colonna d’Ercole inintelligibile per il turista, dove la pianura diventa Germania e i campi diventano asparagi e fragole. Christen, colui che campeggia nel nome dell’azienda Fraises Christen, è un giovane assonnato a prova di ladro che produce rabarbaro, fragole, sedano rapa, patate ma soprattutto asparagi bianchi. Terrosi, veri e terrosi. Non c’è molto da aggiungere. Vanno mangiati crudi.
Tornano i vigneti e la magnificenza delle stradine. I paesini sono un susseguirsi di perfezione. Le cicogne hanno i loro nidi sui tetti. Ribeauvillè, Hunawihr, Riquewihr, Kaysersberg sono assolutamente stupendi con quel vilipendio mai abiurato dei turisti uber alles. Qui decidono loro, aperture e chiusure, pulizia o sporcizia. Si ammira e poi, ogni tanto, si alza la testa verso il graticcio. La verità resta in luoghi come Bergheim, che danno il tempo di rimanere seduti senza sentire l’odore di panino imbottito o senza vedere i prodotti dell’irreprensibile Oncle Hansi.
Colmar ha gli stessi difetti di Strasburgo, la meraviglia indotta, e gli stessi pregi, la meraviglia indotta. Da la Petite Venise al centro, è un fiorire di mercati coperti, case inclinate, giostrine e acciottolato. Le foto rendono meglio di qualunque passeggiata. Estatica.
Le cispe negli occhi diventano un’incursione mattutina nella Valle di Munster a cercare di schivare quei pastorizzatori folli che tutto vogliono racchiudere in musei e in caseifici sponsorizzati da colleghi con le unghie dell’alluce sporche di bondage. Qui, il Munster Fermier è una religione rilassata. Metzeral. Ferme du Buhl: fromage blanc (poco definito che non lascia la stessa freschezza di quello della Ferme Claudepierre a Le Bonhomme), straordinario burro centrifugato, appena malassato e ancora informe, e un Munster a latte crudo. La sublimazione della puzza. Salamoia e microrganismi di un’identità.
Il viaggio finisce lì per quasi tutti. Ma il fascino industriale di Mulhouse è un richiamo troppo chiaro. Le fattorie degli asparagi si moltiplicano, i vigneti spariscono, la perfezione lascia spazio alle foglie morte, all’archeologia industriale e all’Eco Museo dell’Alsazia: quel luogo dove l’artigianato è diventato cattività e salvazione. Vecchia fabbrica che dell’abbandono avrebbe fatto una mia giornata di fissità emotiva, se solo avessi avuto il tempo, e una ricostruzione di case tipiche del ‘500-600 con all’interno artigiani in carne e ossa che lavorano carne e ossa. Barbieri, fabbri, panificatori e vecchine prestate al palcoscenico che mangiano torte e sorseggiano vino in abiti tipici. Cimiteri senza zombie, cappelle mangiate dalla natura, stazioni e treni della guerra. Forno a legna e pane a lievitazione naturale. Contadino e artigiano insieme. Grani dimenticati, pane quotidiano in tutti sensi.
Mulhouse è una serata senza nemmeno i cani randagi con una piazza straordinaria. I morti sarebbero già un lusso, così mi dedico ai Villaggi artigianali, ai Villaggi Industriali, alle fonderie, ma soprattutto ai dolci di un altro racconto… quello delle anime sepolte di una terra che di vini e assaggi ha fatto la sua persecuzione… probabilmente paradisiaca…