L’Alsazia e le sue pasticcerie

kougelhopf

Alsazia. Tra Strasburgo e Mulhouse. Un fazzoletto di terra dove è possibile non incontrare nemmeno una mosca oppure dove fingere una prenotazione mai fatta pur di mangiare al ristorante. Gli scarsi risultati di entrambi gli estremi, mi hanno spinto a rimanere nel centro. Tra l’autostrada e i Vosgi (questo lo documenterò in altra carta da consumare…) l’Alsazia mostra tutta la sua bellezza geometrica di regione di fuga. Il limite a metà strada tra confine e soglia. Limes e limen. L’Alsazia è una regione di frontiera che è stata inglobata e risputata. Dove gli uomini hanno disegnato confini, in quel luogo dove Marechal della Grande Illusione viene risparmiato per un passo oltre la frontiera svizzera, dove la natura continua a fregarsene di come l’uomo ha geo-politicamente determinato un filo d’erba e in quel luogo dove i lati continuano a sembrare congruenti, una nazione necessariamente deve diventarne un’altra. L’Italia diventa Francia in Valle d’Aosta, diventa Austria in Alto Adige, la Svizzera diventa Italia a Chiasso, Francia a Ginevra, Germania a Basilea o a Schaffhausen, e la Francia diventa Germania in Alsazia. Così sparisce la sciatteria estetica dell’incompletezza e di quei volti slavati, che non sono se non lì, e appaiono strutture geometriche, case a graticcio, vigneti in successione, una pulizia decorativa senza eguali e una bellezza che dell’ostentazione si porta dietro le antitesi. Un posto splendido svuotato di fascino.

Nella banalizzazione più ingombrante, precisione tedesca + seduzione francese = pasticceria alsaziana.

Se la conquista del mondo non fosse un principio d’autorità, i pasticcieri alsaziani potrebbero andarne fieri: Pierre Hermé da Colmar ha messo le basi per diventare il più famoso/importante/manageriale/chimicamente evoluto/raffinato/costoso/seriale/forse bravo pasticciere del globo terracqueo. Christine Ferber da Niedormorschwihr (lo stesso paese di Claire Heitzler, una delle più talentuose pastry chef di Francia), un angolo d’Alsazia tra Turckheim e Colmar, ha ristrutturato il loro modo di vedere le confetture, attraverso brevi cotture per mantenere intatti pezzi e “organolettia”, con risultati altalenanti e iper-produttivi e con buona pace delle casalinghe italiane sempre alla ricerca di una nuova cazzata per rivoluzionare le loro pectinose e ossidate creazioni. Gilbert Ponée da Mulhouse, offelliere di corte, si è preso cura, per anni, della scuola parigina di Gaston Lenotre. Daniel Rebert da Wissembourg, trait d’union culturale perfetto tra Francia e Germania. Thierry Mulhaupt da Strasburgo ha ridisegnato la più sputtanata delle creazioni alsaziane: il panpepato. Thierry Gilg da Munster è stato capace di bilanciare vaniglia, cioccolato bianco, lamponi e fragole senza nessun eccesso (ed è più di un merito…). Christophe Felder da Mutzig ha ripreso in mano la pasticceria Oppè (grande pasticciere andato in pensione), dopo aver messo a ferro e fuoco i più grandi alberghi e ristoranti parigini, dopo svariati libri, passaggi televisivi giapponesi, dopo aver sposato Edith, perfetta esplicazione di come la moglie sia la salvezza estetica dell’artigiano, e dopo essere tornato a pochi kilometri dalla boulangerie che fu di suo padre. – Così, un suo dolce ha rivoluzionato una mia serata e un mio modo di concepire le cose. Tutto il resto è passato in secondo piano. Ricopertura di fondant, pasta di mandorla, bavarese alla vaniglia e una chiusura di Pan di Spagna. La sublimazione del dolce in quanto dolce – . Michel Bannwarth da Mulhouse, una delle anime del Relais Desserts, dopo aver reso interessante l’industrialità della sua città, una piazza e un retaggio fumoso di un’epoca in cui si è scelto la Francia a dispetto della Svizzera, morigerando i prezzi e mantenendo lo stupore, si permette di passare da un semplice kougelhopf, il più tipico dei dolci alsaziani, con quella sua forma di budino rovesciato e bucato, la pasta del babà, l’utilizzo del lievito madre (o come dice lui “il nostro panettone”) e la perfezione gustativa, alla viennoiserie più burrosa fino alle monoporzioni dove bilanciare pate d’amande, pistacchi, banane, rum, cioccolato, pralinato, biscuit ma soprattutto strutture.

Molti pasticceri vengono da lunghe scuole nelle cucine dei grandi ristoranti dove la pasticceria non è vista come improvvisazione ma come impostazione. L’Italia è lontana anni luce. In Francia si lavora soprattutto sull’architettura. Non c’è nulla di effimero. I dolci hanno delle coperture, delle ghiacce, delle glasse, hanno una resistenza. Durano giorni. C’è uno studio mirato. A partire dalle cucine dei ristoranti. È come se durassero di più. Lo zucchero, primo principio della pasticceria francese, c’è, conserva ma non si sente. I dolci sono dolci ma non barocchi. La geometria alsaziana ha a che fare con la conservazione, con la possibilità, con la reperibilità ma soprattutto con la ripetibilità. I grandi è difficile che abbiano solo una bottega.

Pasticcieri come Felder e Bannwarth sono personalità importanti nel proprio contesto culturale e sociale, hanno una rispettabilità artigiana da riverenza. Credo, e non penso di sbagliarmi, soprattutto per l’accessibilità di luoghi dove è difficile trovare l’esosa manipolazione parigina o la patina provenzale. Qui, la notabilità è vieppiù accresciuta dalla voglia di tornare o da quella di rimanere. Così l’Alsazia è una straordinaria terra di pasticcieri e di dolcerie che vanno e che ritornano come se Mulhouse, in una notte dove per strada non muoiono nemmeno i cani, fosse tutta lì, in un sorriso aperto sulla parola Jacques…

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