Il Castelmagno appeso alle rocce… Osvaldo Pessione

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Castelmagno. Comune sparso. Valle stretta, alberi, poche case e ancora meno posti dove rifugiarsi. Qualche venditore tipico, un paio di tornanti e Campomolino mostra una definizione quantomeno di frazione. Quindici borgate, sei abitate e un paio recuperate. Comune e posta nello stesso edificio, un ristorante e una bottega. La strada perde tortuosità e inizia ad aprirsi. Vacche al pascolo e la valle, presso Chiappi, diventa una meraviglia d’alpeggio e facilità. Lì, in mezzo a questa morfologia fluviale, memoria di un tempo d’immigrazioni, guerre e abbandoni, Castelmagno rivendica le sue passeggiate e il suo Ferragosto. Il resto è una solitudine nebbiosa, oltre i millecinquecento metri d’altezza, e una possibilità di collegamento con le valli dirimpettaie (Stura e Maira) data da una strada a mezza carreggiata fiancheggiata da una montagna franante e da un burrone decadente. Il coraggio non è nemmeno più una voglia di osare. Le aquile accudiscono il santuario e il resto è vegetazione rarefatta e roccia, in quella angoscia verde che non rende tutto poetico. Questo non è l’Alto Adige, questa è la Val Grana che all’allegoria ha preferito la rovina. È tutto pietra anche le parole occitane compresse in una ricerca di una sigaretta dell’anziano della borgata che è come se non avesse mai visto… mai… neppure oltre… neppure quelle frazioni recuperate da ingegneri e “barolisti”, radicalmente metropolitani, che han deciso di dare asfalto, blandizie e formaggi ad una valle che era stata predata.

L’alpeggio di Osvaldo Pessione è terminato da una settimana, il dialogo con i cultori è ormai diluito in brevi passaggi di notorietà e in anni di sfruttamento di un territorio, di una valle, di un nome e di un marchio. Il Castelmagno è stato, è e sarà uno straordinario formaggio che vogliono in troppi. La voluttà ha portato il tentativo di possesso, la metamorfosi delle cooperative, i trasformatori di fondo valle e l’elaborazione di ristoranti, alberghi e trattorie totalmente votati allo sviluppo dello gnocco e della verticale di un formaggio sempre più asciutto ma soprattutto sempre, tutto l’anno. La stagionalità è stata divelta dalla stagionatura, ormai si cercano lunghi affinamenti, acari ed erborinature indotte. Chi ancora lavora seriamente, tre o quattro (dipende da che lato della montagna si guarda il declivio), sa come produrlo, sa come stagionarlo, sa cosa vorrebbe trovare ma non sa assolutamente, al momento dell’apertura, che formaggio si troverà davanti. L’acidità, caratteristica delle lavorazioni secolari che non hanno mai avuto bisogno di discussioni e di definizioni, è l’anima di questo formaggio, della sua povertà e della sua imprevedibilità. Così, tagliare una forma è l’esperienza di un’autenticità. Osvaldo Pessione, ritmo blando, occhio pessimista e inflessioni cadenzate, ne è assolutamente convinto. Suo padre faceva l’allevatore e lui fa l’allevatore. Ha creato un’azienda contemporanea a Monterosso Grana e ha continuato a portare le sue vacche in alpeggio su a Castelmagno. Il disciplinare prevede l’assenza di Frisone, di fermenti e di insilati, la contiguità di latte e trasformazione e la possibilità di fare il proprio latte in alpe al cospetto della voracità contemporanea. Rottura della cagliata grossolana, sgrondo del siero per un giorno sulla risola che lo contiene appeso come un fagotto. La massa, a questo punto, viene rotta in cubetti, raccolta, ricomposta nuovamente e lasciata acidificare sotto siero tra i tre e i quattro giorni. Triturata e rimpastata con il sale, viene pressata un giorno nella forma e messa a stagionare per un minimo di tre mesi in cantina. Legno, ambiente umido e un controllo maniacale delle condizioni di temperatura e umidità. Osvaldo combatte la secchezza, l’aridità e quell’acidità senza nascondigli che ha distrutto il buon nome di una valle. Le muffe, se ci sono, bene, se non ci sono, bene lo stesso. L’erborinatura arriva comunque al palato in mezzo ad un’acidità compressa di un formaggio con strutture e profumi dissimili da tutti i suoi dissimili. Un erborinato di una bianchezza “liqueforme” che traspare e acceca. Morbido, piccante, lattico, pasta dura ma granulata, epitome di una valle che nel nome nasconde molto più di un presagio…

Osvaldo ne ha coscienza ma si mantiene da sé, senza infingimenti e senza compromissione. Sorride di natura e non parla per diletto. Così, ogni critica è un’alzata di spalle molto oltre la beffa. Lui fa questo mestiere anche quando il tempo se ne frega degli alibi, anche quando gli intellettuali dal passo spedito non possono venire da Cuneo per vedere le proprie cantine, anche nella necessità della mezzadria stagionatoria che non gli fa affinare il formaggio solo come vorrebbe lui. Lo fa e basta, senza nemmeno accorgersi di essere una delle testimonianze più consumate in giro per il mondo, con quella rottura da figlia sposata con un altro alpeggio e con un altro formaggio (più similare al Raschera) dalle fragranze incredibili di aglio orsino, e da moglie che ha forse voglia solo di un po’ di normalità. La roulotte è lì, i formaggi (pochi e quasi tutti ordinati…) sono lì a spurgare e a stagionare, le pezzate rosse sono lì in stalla e la casa è lì adiacente al fieno e sopra il caseificio. Ecco il tutto di un produttore realisticamente stanco e senza fronzoli…

 

AZIENDA AGRICOLA PESSIONE OSVALDO

VIA COMUNALE 6 FRAZIONE CHIAPPI

CASTELMAGNO (CN)

 

LOC. QUAGNA

MONTEROSSO GRANA (CN)

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