La certezza della panificazione… Luca Piantanida

piantanida

Coggiola. Val Sessera. Un luogo remoto, plumbeo, dove hanno permesso ai boschi di diventare boschi. Un verde convinto, scuro, ingombrante e un paese rimasto. Così come dovrebbero rimanere tutti i paesi. L’Oasi Zegna e la Valsesia la racchiudono come a dimenticarla, rilasciando al mondo la bellezza di un selvatico domestico che qui è ancora rito di passaggio di pastori e autoctoni. I paesi sono rimasti fermi ad uno sviluppo industriale demotivato. Quando si dava lavoro a migliaia di persone e i telai tradizionali erano l’anima marchiata a fuoco della fuliggine quotidiana. Il laniero e i suoi dipendenti erano il contraltare della Paletta, salume povero per un proletariato suburbano da pranzi suadenti. E così si è arrivati fino all’oggi, a quella bellezza candida da cinque del pomeriggio e da tranquillità al di là delle siepe. Perché qui il tempo non è più un intralcio.

Nel 1962 la famiglia Piantanida ha aperto il suo primo forno. Vent’anni dopo è entrato in laboratorio il lievito madre che, associato all’alvà (biga), ha mantenuto la tradizionalità di lavorazioni che prevedevano tempi lunghi, modi poco affettati e digeribilità immediata. Il lievito di birra nel metodo indiretto stava e sta sotto il grammo per kilo di farina. Amilasi e proteasi scindono il scindibile così da ritrovare un pane con una durata quantomeno dignitosa. I sapori non hanno il tempo della scelta e della cultura, le idratazioni svuotano un po’ i mulini da battaglia e le auto-macinazioni casalinghe. Anche sui cereali poveri, farro, miglio e segale, il lavoro di Luca, ultima generazione panificatoria, rimane sospeso tra scelta e abitudine. Il pane è buono, poco acido, il lievito madre è ben dosato, e anche la conservabilità è assolutamente rispettata, i sapori rimangono sotto la macinazione di un grano duro con poche fragranze e ancor meno coscienza.

I limiti panificatori, che non sono né tecnici, affinati da anni di associazionismo, né artistici, motivo per cui Luca, a fine anni ’80, è entrato in bottega con le sue creazioni in pasta di pane lustro per i concorsi di mezza Europa, ma piuttosto legati ad una clientela assente e ad una ricerca economica necessaria e assolutamente non conciliante con le leggi della stravaganza, vengono riassorbiti nella pratica del biscotto. Lì, la tecnica della friabilità rende tutto particolarmente buono. La sua versione della pasta di meliga, un frollino montato con farina di mais e racchiuso da granella di zucchero, a metà strada tra la friabilità del mais e l’evanescenza del savoiardo, se inzuppata nel latte, è meravigliosa e soprattutto inaspettata. Perché è lì, al di là delle sue versioni del canestrello di Crevacuore (cialdine leggermente speziate che, specialmente in quelle sfumate al rosé, sono molto raffinate), delle sue paste lievitate alla ricerca di un brevetto per dare a Coggiola un plus oltre la Paletta, nella semplicità di un’assenza aromatica, che si compie il percorso più nitido. Quello della fragranza. Luca, nonostante il timido orgoglio che limita l’eccellenza al suo mondo, dando tutto un po’ troppo per scontato, dimostra una consapevolezza dolciaria rara.

Il laboratorio è un mondo antico fatto di retaggi e assenza di compromissione. La gestione della madre legata è un’intima conoscenza ma senza la coercizione della presenza. Il grande artigiano demanda, forma una squadra e si fida. E così Luca Piantanida, al di là di un’eversione che ogni tanto diventa prosopopea, è l’emblema di un professionismo distante, che dei paesi non si porta più dietro il romanticismo ma la storia di necessità e isolamento. La sua partecipazione è una dimostrazione di forza…

 

PANIFICIO PIANTANIDA

VIA GARIBALDI 10

COGGIOLA (BI)

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *