Pastai a filiera corta… Antonio Camazzola

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Castel d’Ario dopo pranzo ha la stessa aria di Castel d’Ario prima di pranzo. Forse le strade si allargano un po’ di più o forse è solo la cinta. Il mio anfitrione, Marcello Travenzoli, è la più dissacrante guida turistica che potessi trovare. Castel d’Ario non viene nemmeno nominato, il centro viene palesemente snobbato così come l’assenza di qualcosa che non siano villette ad un piano. A lui interessa il prodotto, il ruminare, il coltivare, il brandire dei libri diventati zappe in una notte di plenilunio e di indisponibilità d’idiozia indotta. Castel d’Ario, se avesse più barbe, delle riviste che non siano elenchi telefonici scritti da messi comunali e delle tavole di legno eco-componibile, non sembrerebbe comunque Portland.

Così arrivo all’Hostaria, un posto di passaggio, indefinibile per categorie, senza nessun tipo di formazione che non sia la passione. Probabilmente non ci sarei entrato, probabilmente non l’avrei nemmeno vista. E avrei sbagliato. Perché la cultura del cibo non deve passare necessariamente o per la vecchiaia o per la tecnica. Pensare ai giovani, o quelli che giovani non sono più, è anche dare un’occhiata al portafoglio. Perchè il fighettismo da consulente informatico, con le scarpe laccate di materia grigia che riempie i ristoranti opulenti che manco più le tradizioni da canne di fiume riescono a portare avanti, ha vieppiù stufato. Antonio Camazzola e Marcello Travenzoli hanno cominciato a parlare, si sono trovati e hanno sostituito il cereale al pallone, mentre fuori impennavano le creste e le ruote dei motorelli.

Antonio è una persona scrutatrice, poco scontata, con un locale interdisciplinare. Inizia a lavorare e devi provare a seguirlo. Il silenzio è scontato dalla platea, così bisogna provare a guardare. Farina di grani teneri (Verna e Gentil Rosso) burattata, uova, trafile in bronzo e una pasta all’uovo né “fresca” né “secca”. L’essiccazione non è prevista, o almeno non è canonizzata, e dalle trafile fuoriescono spaghetti ma soprattutto sedaniniall’uovo color marroncino o ecrù o fulvo che in inglese diventa fallow che significa maggese perché richiama il colore della rotazione delle colture. Una pasta al colore di grano senza la mistificazione dell’integralità ricostruita. Il prodotto finale è buono, basta a se stesso, ha il principio antico del nutrire legato a quello contemporaneo dello stupire. Non si conserva a lungo, tiene in cottura nonostante l’uovo, il bronzo e la setacciatura. Qualcosa che ha un senso insieme alla materia prima. La più buona delle falsificazioni, chiamata sugo, potrebbe anche non servire.

Antonio si fa tenere da parte qualche maiale dagli allevatori locali e si produce il suo salame, con una stagionatura difficile da sostenere, tiene un banco dei formaggi molto al di là delle richieste, ha un pensiero in divenire che probabilmente ha bisogno di maestranza per diventare una conservazione ma non rimane compresso in un destino da somministratore di bevande e di gazzette sportive. Trafilato e defilato…

(foto crediti: Stefania Pompele da TerraUomoCielo)

 

L’HOSTARIA

PIAZZA GARIBALDI 47

CASTEL D’ARIO (MN)

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