Pastori sardi nella Romagna Toscana… Salvatore Urrai

Tra Tredozio e Marradi, sul confine tra Romagna e Toscana, al culmine del Monte Collina, definizione perfetta per modi ed altezze, una strada bianca di tre kilometri squarcia bosco e cielo, lasciando l’impressione di un orizzonte giallo ocra. Mentre il sole cala e i dialetti vanno a farsi benedire, i territori di Tredozio e di Marradi scompaiono tra gli stessi volti palindromi. Qui l’identità è una cosa sfuggente che è sfuggita di mano. Si sale da Faenza, s’incontrano frutteti a perdita d’occhio, la valle si chiude, non si superano i 300 metri ma s’incomincia ad annusare la montagna. Le ombre creano il disincanto mentre si arriva a Tredozio; tra il fiume, le case in pietra e i giardini all’italiana, si superano i ponti e si cambia regione. Le strade bianche segnano il passaggio, l’assenza di cartelli e la vaghezza del bosco fanno il resto. Qui, fino agli anni ’20 era tutta Toscana. Una Toscana isolata, al di qua della soglia, dove il sole batteva altre necessità. E così gli abitanti della valle del Tramazzo, al di fuori delle vie di comunicazioni, han sempre cercato di sovvertire l’ordine costituito. Ci ha pensato Mussolini a mettere il punto. Tredozio entrava a far parte della Romagna insieme ad altri dieci comuni, per due ordini di motivi: ingrandimento del territorio e inclusione della sorgente del Tevere, “fiume sacro ai destini di Roma”, all’interno della provincia di Forlì, la stessa che ha dato alla luce il Duce.

Salvatore Urrai è il pastore arrivato in queste zone da bambino a seguito di pecore e famiglia (la Sardegna è rimasta nei formaggi ma si è un po’ stemperata). Gianni Bassetti – futuribile occasione tredoziese che, con la sua Locanda Guelfo, sta cercando la strada di un recupero e di un ritorno – è il delatore perché qui non ci si può arrivare da soli. Così m’inerpico, sbaglio strada tre volte, sfioro il tramonto che mi avrebbe abbandonato tra latrati e streghe, e giungo ad una cascina non troppo affettiva. La fortuna mi accompagna. Salvatore è ancora lì, solo, sta finendo di fare il fieno prima di tornare giù a Tredozio dalla sua famiglia. Quarant’anni di emigrazione e transumanze, di pastorizie e animali al pascolo, e nulla sembra essere cambiato. Ora c’è solo un tonificante interesse metropolitano verso gli animali in mezzo ai campi, i loro formaggi e le loro carni. Ma qui non è cambiato una virgola, il formaggio estivo si è sempre fatto solo ad erba e fieno, a latte crudo e senza nessun fermento. Un primitivismo corroborato anche dalle analisi, cellule e cariche batteriche pressoché perfette.

Un centinaio di pecore sarde, molte meno in lattazione, un paio di litri di latte al giorno, allevamento, mungitura e caseificazione. Un solo formaggio, un pecorino con rottura di cagliata a chicco di riso e a pasta cruda, un raviggiolo quando il latte lo consente, una straordinaria ricotta e per un paio/tre di settimane all’anno una pasta semi-cotta per prolungare le stagionature. Questo è il problema della pastorizia solitaria. Non si possono aspettare i tempi. E così solo qualche forma supera il mese e pochissime i due. Leggera salamoia per la crosta e al taglio un formaggio senza ragionamenti, nient’altro che pecora. Estremo, animale, con una masticazione perfetta.

Qui le congetture tecnocratiche, le fermentazione controllate e le tecniche casearie non sono mai state un’opportunità, Salvatore fa il formaggio in Romagna, le sue pecore pascolano in Toscana, i giorni rispecchiano sempre lo scheletro del già visto e la pastorizia rimane lontana come un’abitudine di retroguardia. Così può sopravvivere ai camion, alle piastrelle e alla liofilizzazione. Nella normalità del senza nome e di un anacronismo dai tenui espedienti…

AZIENDA AGRICOLA SALVATORE URRAI

VIA COLLINACCIA 19

TREDOZIO (FC)

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