Piccoli torrefattori all’ombra dell’egemonia… Alessandro Vesentini

Verona. Marzano. Sulla strada verso la Valpantena e verso la Lessinia, in quel Veneto nascosto dove l’agricoltura regala ulivi, castagni, peri missi e albicocchi e dove l’archeologia decade su uno stradone unico con case diroccate, botteghe da un tanto al kilo, rotonde sinistre e un’immagine di mezza montagna che non si riesce a vendere. La comunicazione è privata dei rimandi e dei sottesi. Non c’è nulla da scoprire, è tutto lì. Fatto di dialetto e di capanne. La strada provinciale della Valpantena è diritta con i numeri a bordo marciapiede. Qui, Alessandro Vesentini ha deciso di aprire il suo piccolo laboratorio, mantenendo la produzione lontana dalla somministrazione (Caffè Alexander in centro a Verona).

Tostatrice Petroncini, poco sopra o poco sotto i dieci kili di capacità in azione, un ventilatore acceso e uno sfiatatoio che ha puntato il cofano della mia macchina con i rimasugli del chicco. Sabato mattina il negozio è chiuso e Alessandro si può dedicare alla tostatura.

Nessun estremismo e nessun esoterismo. I santoni e i perfezionisti sono di questo mondo ma non di questa via. Il rispetto, scemato in concorrenza, si è risolto con una telefonata sul prestigio e sulla posizione del locale. Alla fine decide sempre e solo Gianni Frasi.

Così il bar della famiglia Vesentini, nel tourbillon dei cambi di fornitore, ha deciso di trasformarsi in una torrefazione.

Il deuteragonista non poteva che essere Leonardo Lelli. A Bologna, Alessandro ha trovato il mentore tostatore per iniziare una professione. Straordinaria finezza, capacità di valorizzare Santos e robuste e un caffè fin troppo intellettuale per un pubblico che inizia a guardare a sud. Così le dinamiche di mercato, che hanno visto i suoi piedi pestati da vecchi estimatori, l’hanno portato a far crescere un ragazzo finanche nella necessità di un problema da risolvere.

Così, la bottega del caffè diventa Manifattura Caffè e Alessandro un artigiano. Prescindendo da semplicità, lavoro, aromatiche, piantagioni, incapacità di valorizzazione del prodotto e sicumera italica nel nome dell’unico dio “espresso”, il ruolo del torrefattore è un ruolo marginale, portato oltre negli ultimi anni gourmet, ma sempre un filo indietro. Al sud si bevono robuste bruciate da torrefazioni semi-industriali, senza origini e con misteriose miscele. Un’arabica dolce è considerata senza struttura, un presso filtro, “pisciazza di purpo”. Gli espressi sono perlopiù bruciati o terrosi. Mancano di aroma, di acidità e di dolcezza. Non ci sono note, non ci sono retrogusti. Ecco perché esiste il torrefattore e non la torrefazione. L’uomo e la sua ricerca. Quella sulle origini, quella sulle miscele e quella sulle aromaticità. Ecco che cosa rimane dell’esistenzialismo gastronomico. Delle figure che provano a dare una direzione. Frasi, Lelli, Bonini, Ponchione, Trinci hanno un ruolo apparentemente facile. Quello di scegliere e quello di tostare. Ma le sfumature sono infinite. E Alessandro lo sa bene.

Prende una robusta indiana e la trasforma in un ottimo caffè da mattina. Macina l’orzo Mondo della Chiona di Spello. tirando fuori uno straordinario prodotto. E nulla è concesso all’estetica del mangiafuoco, almeno dentro al laboratorio.

Alessandro è un ragazzo preciso, poco nevrile e soprattuto senza definizioni perentorie. Il grigio appare come una qualità. Il rispetto per il prossimo è sempre un assaggio di lavoro. Quel qualcosa di biblico o quel qualcosa di definitorio, che fanno preferire volti vissuti, arabiche lavate, mono origini cacatorie (da scimmie o donnole è indifferente…) o estremizzazione estetizzante del marketing, non fanno parte di queste lande. Alessandro ha una passione precisa e ben indirizzata. Manca ancora dell’indocilità del viaggiatore da piantagioni ma persegue l’obiettivo di dare al cliente e di imparare da questo. Senza velleità. Sta testando qualche crema, qualche pasta e qualche gelato un po’ più capziosi e sofisticati. Le forme del caffè rimangono al centro, però.

Ha imparato a godere del presso-filtro da Lelli, ha lavorato sull’estrazione di un buon espresso in quanto italiano, ha creato delle miscele con robuste oltre-tostatura per andare incontro al gusto del cliente del sud senza imporglielo.

Sidamo etiope lavato: arabica raccolto a 1500 metri d’altezza. Chicco piccolo lievemente tondeggiante. Miele e cacao arrivano subito, intensi. Acidità accennata, tostatura perfetta. Gli oli essenziali estratti fanno il resto. Rimane in bocca persistente, con tutta una catena di aromi inutilmente enumerativi. C’è di tutto. È solo una questione d’immaginazione… anche per la muffa accennata…

La sua origine indiana è abbastanza acida, è l’espressione di un amore per la diversità. Il mio. Oltrepassando il suo corpo pieno, i gusti e i retrogusti, rimane complesso e dinamico, non di sapori ma di acidità.

Il Guatemala è acido ma speziato. Rimane anche un filo troppo. Le sue miscele cambiano, hanno la necessità quotidiana e rivestono un’importanza più commerciale che concettuale. Ma vengono create a partire da due, tre o quattro origini al massimo. Solitamente con una base di Santos e una percentuale di robusta. La facilità della macro-miscela (dieci/dodici caffè diversi) non è il suo dogma. La confusione genera facilità e dubbi. Si trova tutto e niente. Non ci sono percezioni di gusto ma solo onanistiche pretese da blend filosofale.

Alessandro fa le sue cose. Manca totalmente di una comunicazione e di una fascinazione. Probabilmente avrebbe bisogno di un’altra città. Probabilmente Verona è satura, stralunata e riconoscente… Ecco tutto…

 

MANIFATTURA CAFFE’

VIA VALPANTENA 145/F

VERONA

 

CAFFE’ ALEXANDER

VIA LOCATELLI 15

VERONA

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